Metafisica dell’Inferno

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Per la pastorale religiosa contemporanea (timorosa e spesso priva di punti di riferimento) é divenuto un tabù innominabile; ma anche lì dove ancora se ne parla, difficilmente l’approccio riesce ad andare oltre un livello puramente fidestico e soggettivistico. Stiamo parlando dell’Inferno -la più “temibile delle possibilità cui possa andare incontro un essere”.  In questo brano, tratto dal saggio “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi”, (pp. 62-65) la questione degli “stati infernali” viene affrontata a partire dalla Metafisica e dalla Cosmologia tradizionali, l’unica prospettiva che può realmente “rendere ragione” dei contenuti dei dogmi religiosi.

Premessa: la comprensione piena del seguente testo implica una qualche conoscenza delle dottrine metafisiche e cosmologiche (soprattutto del Simbolismo della Croce e della “tripartizione dell’essere umano”) che sono state riassunte nella prima parte del saggio da cui questo brano é stato tratto.

Qual è, alla luce della metafisica, la “necessità” dell’esistenza dell’Inferno? Alla luce del simbolismo della Croce, è evidente che quando l’essere ha ormai esaurito le possibilità terrene, con la morte fisica esso è destinato prima ad esaurire anche le possibilità “sottili” nel mondo intermedio e quindi, dopo un periodo più o meno lungo, a sprofondare negli stati inferiori dell’essere che corrispondono graficamente alla metà inferiore dell’asse verticale della Croce. Questo “movimento” inarrestabile verso il basso non è altro, del resto, che il movimento stesso impresso dalla “caduta”: attraverso le spire inferiori del simbolico serpente, l’essere viene sempre più attirato verso il basso come in vortice («un abisso chiama l’abisso» recita il Salmo 41, 8). Il destino della “dannazione” è quindi quello paradossalmente più “connaturato” alla condizione dell’uomo decaduto; destino dal quale è possibile sfuggire solo per mezzo di un intervento della Grazia che arresta l’inesorabile movimento discendente e dona all’uomo la possibilità della “risalita”.

L’Inferno e la “seconda morte”. L’eventualità più sinistra che possa capitare ad un essere è sicuramente lo sprofondamento definitivo nella condizione infernale: c’è un inferno, infatti, dal quale “si esce”, per usare le parole di San Bernardo, e uno dal quale “non si esce” (se non, come vedremo, per ricadere in stati dell’essere sempre più bassi e tenebrosi). Chi al momento della morte fisica non si trova in una condizione di Grazia e non può quindi accedere alla “salvezza”, si trova infatti separato da ogni possibilità di ordine superiore e spinto verso il basso dall’ inesorabile movimento della caduta. Nel momento in cui l’individuo si ritrova nel mondo intermedio privo della necessaria Grazia divina, infatti, le sue possibilità individuali permangono per un certo tempo (qui il termine va inteso in senso lato, visto che nel mondo intermedio vige uno stato di atemporalità); tali opere, tuttavia, si manifestano alla coscienza per quello che essenzialmente sono, ovvero opere di tenebra, prive della Luce divina, che assumono tutto il loro aspetto letteralmente terrificante e angoscioso. Sono queste, nel senso stretto del termine, le cosiddette “pene dell’Inferno”.
E tuttavia, questo è solo l’inizio di un processo di caduta indefinita che risucchia l’essere verso il basso (abyssus abyssum invocat); da questo punto di vista, è piuttosto interessante vedere come nelle Scritture si parli, in maniera solo apparentemente contraddittoria, di uno stato infernale “definitivo e perenne” mentre al contempo altri passaggi sembrerebbero far pensare ad una “dissoluzione” dell’essere. Tra i passaggi in cui viene messa in luce l’aspetto “definitivo” della condizione infernale vi è certamente il discorso di Gesù ai suoi discepoli:

E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue ( Marco 9, 47-48)

Vi sono poi tutti i passaggi dei Vangeli dove le pene dell’Inferno sono definite “perenni” (questo, in effetti, è il significato letterale del termine greco aiònion, spesso tradotto come “eterno” nelle lingue occidentali, ma che significa letteralmente “atemporale”, “fuori dall’ eone”, “fuori dal secolo” inteso come tempo terrestre). Al tempo stesso, vi sono certi passaggi dei Salmi in cui la “dannazione” sembrerebbe coincidere al contrario con un annichilimento dell’essere individuale; il più noto è il Salmo 48, 15:

Come pecore sono avviati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà ogni loro parvenza.

Per comprendere tale apparente contraddizione, bisogna capire in effetti quali aspetti dell’essere siano destinati a subire la dissoluzione e quali, al contrario, siano destinati a permanere: e da questo punto di vista, la risposta può venire solo alla luce della metafisica. A livello metafisico, infatti, è evidente che un essere individuale è costituito da un insieme di “possibilità” che sono, nel caso dell’essere umano, sia di tipo fisico che psichico o sottile. Tali possibilità non possono che esaurirsi nel corso della manifestazione cosicché, ad esempio, l’esaurimento delle possibilità “materiali” coincide con la morte fisica. Lo stesso processo avviene, in realtà, per le possibilità di tipo sottile, che possono permanere indefinitamente (ma non eternamente), nel mondo intermedio. Tuttavia, come vedremo, nel caso in cui un essere consegua la “salvezza”, tutte le sue possibilità individuali vengono preservate e “trasfigurate”, mentre nel caso in cui la salvezza non venga conseguita, la dissoluzione delle possibilità individuali nel vortice infernale del divenire sarà inevitabile.

Ciò che si dissolve (drammaticamente e dolorosamente) è quindi “l’aggregato individuale” dell’uomo, le possibilità che si sono manifestate nel corso della vita terrena e che costituiscono la realtà sottile dell’essere: e questo processo è ben reso dall’espressione “seconda morte” con il quale, in certi passaggi delle Scritture, si definisce la dannazione. Anche nel simbolo della Gheenna di fuoco (che era il luogo dove, a Gerusalemme, venivano bruciati i “rifiuti” della città) ritorna questa idea di una dissoluzione dell’aggregato umano, che viene distrutto irrimediabilmente. Tuttavia – ed è questo che a livello metafisico va tenuto presente- l’essere nella sua totalità non coincide con la semplice individualità umana. Da questo punto vista, è particolarmente interessante l’accenno evangelico al “verme che non muore”: nella Gheenna che tutto consuma c’è una realtà che pur rimane sussistente. L’espressione evangelica, peraltro, rimanda con evidenza ad un passo del Libro del profeta Isaia (66, 24) in cui la condanna degli empi è descritta in questi termini: «poiché il loro verme (rumah) non morirà, il loro fuoco non si spegnerà e saranno un abominio». Ora il parallelo tra verme e uomo si ritrova anche in altri passi dell’Antico Testamento (Giobbe 25, 6; Salmo 22, 7); un’immagine, quella del verme o della larva, che rimanda all’essere ridotto per così dire “ai minimi termini”.

Ma la “larva”, simbolicamente, può anche essere intesa come il seme di stati ed esistenze diverse da quella umana. L’essere che non ha conseguito la salvezza è condannato, infatti, non solo a sperimentare il “fuoco” che le proprie opere terrene hanno seminato, ma anche a scendere sempre più in basso di spira in spira negli stati inferiori dell’essere, stati che non è più possibile a questo punto definire “umani” (Nota).

Da questo punto di vista, e tenendo presente che la Terra indica simbolicamente lo stato umano (non solo questa terra effimera, ma anche la Terra Vera, l’Eden, che dello stato umano rappresenta la perfetta e beatifica espansione), la collocazione dell’Inferno sotto terra non rimanda solo simbolicamente “all’oscurità” di tale condizione ma soprattutto al fatto che esso va identificato con gli “stati inferiori”, demonici e non più umani in cui l’essere è condannato a precipitare presto o tardi dopo aver esaurito tutte le possibilità inferiori dello stesso stato umano.

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(Nota) Per inciso, è proprio nel “passaggio dell’essere” da uno “stato” all’altro che va riconosciuto il vero senso della dottrina indù della trasmigrazione (samsarana), che non va confusa con la cosiddetta “reincarnazione”. La manifestazione cosmica riproduce infatti un andamento a spirale, per cui è impossibile qualsivoglia “ritorno” all’identico; una volta esaurite le possibilità in un dato “stato”, l’essere non può in alcun modo tornarvi. Nel caso degli esseri che non hanno conseguito la salvezza (o, a maggior ragione, la Realizzazione spirituale), l’unica possibilità è la discesa in stati inferiori e infernali. La cosiddetta “reincarnazione” è, in realtà, una dottrina “popolare” nata in epoca tarda proprio a partire da un’incomprensione della dottrina sulla trasmigrazione e che non ha alcun legame con l’insegnamento originario dei Veda.

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7 commenti

  1. Avevo già letto tale brano sul tuo libro. E mi parve già allora palesemente contraddittoria la frase “con la morte fisica esso è destinato ad esaurire anche le possibilità sottili nel mondo intermedio” rispetto al versetto di Marco 9,48 “dove il loro verme non muore”. Mi spiego: è proprio perché tali possibilità sottili (ovvero psichiche) non sono state esaurite durante l’esistenza (ciò che concerne i piccoli misteri), che queste permangono sotto forma di quelle che in sanscrito si direbbero “tracce mnestiche (o residui karmici – “samskara”), le quali nel Buddhismo costituiscono uno degli anelli della “paticcasamuppada” (coproduzione condizionata), motivo per il quale, appunto, il verme non può consumarsi nell’Intermedio (in greco οὐ τελευτᾷ – sintagma che potrebbe essere tradotto anche con “non si compie” – vedi il noto τετέλεσται di Gv 19,30). Cos’è il verme/SKOLECS che non si consuma/compie? Il seme della nota parabola evangelica (o anche di 1Cor 15,35-44). Senza morte in vita (in questa vita), in buona sostanza, si permane necessariamente nel τροχὸν τῆς γενέσεως (Giacomo 3,6), qualunque siano le condizioni dell’esistenza successiva che si subiranno. Il che è come dire: il σῶμα ψυχικόν (che è uno stato larvale, per così dire) non potrà risorgere come πνευματικόν (analogicamente: il bruco non può trasmutarsi in farfalla: l’individuale non viene trasceso). Tale permanenza nella corrente delle forme, però, non è detto che non sfoci in un’ulteriore esistenza condizionata: gli stati inferiori o superiori dell’essere cui accenni, infatti, lo sono in relazione allo stato umano – ovvero alla “spira” (una sola fra le indefinitamente molteplici) della quale l’uomo occupa la posizione solo virtualmente centrale; ma vi sono certamente altri mondi (altre spire), e certo altri corrispondenti stati centrali (virtuali o in atto), assimilabili a quello umano, dei quali nulla sappiamo, che però vanno necessariamente ammessi (pena il ridurre l’infinita Onnipossibilità – l’Uno come δύναμις τῶν πάντων plotininano – a qualcosa di finito, il che sarebbe assurdo), e proprio in tali mondi si deve ammettere la possibilità di trasmigrazione per l’anima “non consumata” – fatto che va rammentato, se si vuol fare un discorso metafisicamente corretto. Per dirla in altro modo: l’Anima che non abbia raggiunto la liberà di muoversi a piacimento fra i mondi (lo stato di kāmacara) può essere sbalestrata in un “alto” e in un “basso” relativo al mondo nel quale “ha operato” (in base a meriti o demeriti – vedi Rm 4,4-5), ma può anche slittare in un mondo “parallelo” (parallelo non spazialmente, si intende, ma solo “logicamente”). Vi accenna Martin Lings in “Antiche fedi e moderne superstizioni” (pag. 81). E questo senza neanche accennare al fatto che, secondo la metafisica pura, qualunque forma condizionata è solo e soltanto un riverbero del Suo gioco – ma questo è veramente un altro paio di maniche.

    Infine, intendere “un Abisso chiama l’Abisso al fragore delle Tue cascate” del Salmo 42 come fai tu, se da un canto è lecito, è tuttavia come minimo riduttivo. Il TEHOM ebraico possiede livelli semantici molto più estesi; si vedano certe interpretazioni cabalistiche e, in sintesi, l’affinità etimologica di TEHOM da un canto con EMET/Verità – quell’EMET che senza l’alef è “morte, come insegna il mito del Golem; dall’altro col TOHU di Gn 1,2, sul quale mi taccio. Già Agostino, in ogni caso, fornisce, nella sua esegesi sul versetto del salmo in questione, almeno due interpretazioni diverse (e solo apparentemente contraddittorie).

    • Gianluca Marletta on

      L’espressione “con la morte fisica esso è destinato ad esaurire anche le possibilità sottili nel mondo intermedio”, si riferisce essenzialmente alle possibilità psichiche della singola “individualità” umana che, come giustamente affermi tu, condizionano le esistenze successive. In specifico, però, il parallelismo era quello tra il destino dei “dannati” (che perdono definitivamente lo stato umano e quindi …conoscono la “dissoluzione” o “seconda morte”, secondo le espressioni bibliche) e i “salvati” (la cui permanenza nei prolungamenti sottili dell’individualità conduce allo Stato Primordiale).
      Inoltre, ci sarebbe da dire che l’espressione “dissoluzione” può avere un doppio significato e che solo “in senso lato” può essere utilizzata in riferimento all’ascesa verso Stati dell’Essere Superiori (nel cui caso bisognerebbe piuttosto parlare di “reintegrazione”, esattamente come il – può reintegrarsi nel +). La stessa Liberazione NON é affatto una dissoluzione, ma la reintegrazione perfetta (le espressioni orientali che parlano di “spegnimento” vanno intese, più che mai, in senso apofatico). Nel caso della perdita dello stato umano, al contrario, si deve realmente parlare di “dissoluzione” di tutte le possibilità inerente allo stato medesimo.
      Infine, riguardo la possibilità che l’essere “trasmigri” attraverso altri Stati Centrali in altri cicli di manifestazione questa non va escluso affatto, ma non ne ho parlato perché esula totalmente dal tema del saggio che tratta esclusivamente dello Stato Umano.
      Bisogna infine tener presente che il saggio é indirizzato specificatamente ai fedeli delle Tradizioni Abramitiche e parla il loro linguaggio: per questo, gli accenni ad altre tradizioni sono solo marginali ed esclusivamente in funzione di un maggiore chiarimento di alcune specifiche questioni.
      P.S.
      Nella Tradizione Ebraica, TEHOM-abisso non ha solo il significato di stato infernale e questo é giustissimo. Ancora una volta, infatti, un simbolo o un’espressione possono avere un significato opposto a seconda del contesto oppure, meglio ancora, il significato “inferiore” non é che un riflesso invertito di quello Superiore.

  2. Nella Tradizione Cristiana esiste una lunga sequela di rivelazioni mistiche sugli stati del post-mortem – siano essi infernali, purganti o paradisiaci – che spiegano, in un modo simile a quello indicato dal saggio, il significato della “pena del senso” e della “pena del danno”. Mi pare, tuttavia, di capire che la “manifestazione” è da considerarsi una “emanazione” dell’Uno che si sviluppa in senso discendente lungo le spire del serpente genesiaco. Giusto?

    • Gianluca Marletta on

      In realtà, il termine “emanazione” non è corretto, perchè implica quasi “un’uscita da Sè” della Divinità stessa. D’altronde, ogni termine é necessariamente limitato quando si parla di questi temi. Quello di Manifestazione é forse il più esatto per approssimazione.

  3. Ritengo sia molto interessante il rapporto accennato nel testo fra la comprensione dell’individualità e la comprensione dell’inferno. In effetti, la seconda morte costituisce la perdità di quell’unità, che sebbene relativa ed incompleta costituisce una partecipazione alla Vera Unità e che è realmente la Vita. Per questo motivo la dannazione infernale è, ad un tempo, una seconda morte ed una dissoluzione, che può essere rappresentata simbolicamente anche come una perpetua dissipazione.

    • Esiste una bella rappresentazione grafica (ovviamente da intendere in senso analogico e simbolico) di questa dissoluzione, anche se è stata pensata per trattare tutt’altro argomento, in campo matematico. Si Chiama la “polvere di Cantor”: si può immaginare una coppia di segmenti, posti uno accanto all’altro, tanto da poter sembrare, ad uno sguardo più o meno disattento, un segmento unico, più o meno così:

      ______________ ______________

      Se però ci si avvicina si scopre che ciascuno dei due segmenti è a sua volta una copia più piccola dell’intera figura, cioè è composto, a propria volta, di due segmenti più piccoli, ancora più vicini l’uno all’altro, in modo da sembrare proprio attaccati, più o meno così:

      ______ _______ _______ _______

      Se ci si avvicina ancora di più, si comprende che anche i segmenti più piccoli sono riproduzioni ancora più ridotte dello schema originario, cioè sono composti da altri (pseudo)segmenti ancora più piccoli, a propria volta in realtà riproduzioni minuscole della figura originaria.
      Se si comprende bene tutto quanto e si è coerenti fino in fondo, risulta del tutto chiaro che la figura in questione è fatta … di niente, in quanto ogni sua pretesa parte e solo un composto di parti che non sono a loro volta vere parti, ma composti, di composti, di composti … all’infinito.
      Ed ecco la risposta alla giusta domanda: si dissolve in niente ciò che fin dall’inizio non è altro che niente, cioè la pretesa di dare un valore assoluto ad una realtà del tutto illusoria.