Il “giardino dell’Eden” e il “corpo di Adamo” (estratto dal saggio: “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi”)

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Lucas Cranach - Adamo ed EvaL’incomprensione per ciò che la Tradizione Biblica intende con l’immagine dell’Eden e del corpo di Adamo è il “cavallo di battaglia” d’ogni critica profana alla religione e d’ogni confusione sulla natura di ciò che chiamiamo “uomo”. Ma l’incomprensione non nasce solo a partire dallo spirito del materialismo moderno, ma anche a causa di un certo letteralismo religioso ignaro dei significati più profondi delle Scritture. Questo brano estratto dal libro “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi” riconduce la questione sul piano metafisico tradizionale, l’unico a partire dal quale è possibile comprendere tali realtà.

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IL GIARDINO DELL’EDEN E IL “CORPO DI ADAMO”

(Da: Gianluca Marletta, L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi, Ed. Irfàn, pp. 33-39)

L’Eden, prima ancora che un “luogo”, è uno stato dell’essere: lo stare “nell’Eden” indica, innanzitutto, la condizione dell’uomo al momento della sua creazione di perfetta realizzazione delle sue possibilità individuali, non solo fisiche ma anche sottili e animiche.

Questa constatazione implica due fondamentali deduzioni:

  • la realtà dell’uomo edenico non è affatto (come immagina un certo letteralismo religioso) quella di un semplice essere umano identico anche fisicamente all’attuale. La costituzione stessa dell’Adamo primordiale, infatti, è imparagonabile a quella dell’uomo decaduto che ha perso la perfetta unità di anima e corpo e vive quasi esclusivamente nella “carnalità”.
  • L’Eden non è un qualche luogo rintracciabile su una qualsiasi cartina geografica della terra attuale, poiché esso si pone su un piano ben più alto e intangibile rispetto a quello terreno e temporale. L’Eden non è “questa terra”, bensì la Terra Vera, la Terra dei Viventi, con caratteristiche che uniscono e trascendono al tempo stesso l’aspetto fisico e quello sottile della Realtà.

L’Eden o la “Terra Vera”

Nelle preghiere del rito ebraico di sepoltura, l’officiante recita queste parole:

O antichi Patriarchi che dormite in Hebron, apritegli le porte del Giardino dell’Eden (Gan Edèn), e ditegli: sia la sua venuta in pace! Angeli della pace, andategli incontro, apritegli le porte del Giardino dell’ Eden e ditegli: sia la tua venuta in pace! O voi custodi del Giardino dell’Eden, custodi dei tesori dell’Eden, apritegli le porte del Giardino dell’Eden ed entri (nome del defunto) nel Giardino dell’Eden a godere le gioie dell’Eden.

Il contenuto della preghiera è inequivocabile: nella Tradizione Ebraica, il Giardino dell’Eden non è affatto un luogo geografico posto chissà dove nel Medio Oriente come sognavano certi ingenui viaggiatori occidentali dell’800, ma uno stato beatifico dell’essere che, dopo la caduta, è raggiungibile solo attraverso un cammino spirituale di “ritorno” alle origini e che è accessibile, almeno per la stragrande maggioranza dei credenti, solo dopo la morte fisica. (…)

Questi passaggi rendono bene il senso che le tradizioni religiose semitiche attribuiscono alla realtà dell’Eden: “luogo” dove l’Uomo Primordiale era posto in pienezza e beatitudine, ma anche mèta beata che il credente spera, con la grazia di Dio, di poter raggiungere nel post-mortem. La Resurrezione dei Morti, infatti, altro non è che un ritorno allo “stato edenico”, benché con alcune fondamentali differenze che approfondiremo in seguito.

Questa realtà dell’Eden che va inteso come “stato dell’essere”, tuttavia, non implica che esso vada relegato nel limbo dell’evanescenza, né identificato con una realtà puramente spirituale. L’Eden, al contrario, possiede una sua “fisicità”, ma sono proprio le caratteristiche peculiari di questa fisicità a renderlo del tutto diverso dalla “terra” mortale e decaduta che attualmente ci ospita.

L’Eden, in realtà, non è altro che la “creazione primordiale”, dove tutte le possibilità, siano esse corporali o sottili si ritrovano simultaneamente. Nell’Eden non c’è tempo e successione come nella terra decaduta in cui abitiamo: tutte le possibilità del mondo manifestato vi sono presenti in maniera armoniosa, per cui i corpi sono, al tempo stesso, concreti e sottili.

Nell’Eden non vi è la morte perché non vi è un divenire (perlomeno nel senso che intendiamo riferendoci a questo mondo). Possiamo anzi dire che il rapporto tra la Terra Vera (l’Eden) e la terra attuale è la stessa che esiste tra una realtà e la sua ombra. Nell’Eden, ogni aspetto del creato è co-presente nelle sue indefinite possibilità, sulla terra decaduta esiste, al contrario, un prima e un dopo che genera il continuo (e doloroso) susseguirsi di trasformazioni, di nascite e di morti lungo la linea temporale.

Sant’Agostino, nel suo De Genesi ad litteram, chiarisce che esiste una creazione primigenia compiuta nell’atemporalità e una creazione successiva (temporale) che avviene nel divenire:

Diversa fu l’azione di Dio quando fece le creature nella creazione primordiale, dalle quali si riposò il settimo giorno, e diversa è quella con cui le governa e per cui continua a operare tutt’ora. Allora Dio agì creando tutti gli esseri simultaneamente, senza intervalli di tempo, ora invece, seguendo gli intervalli di tempo per i quali vediamo gli astri muoversi da levante ad occidente, le condizioni atmosferiche mutare dall’estate all’inverno, i semi germogliare, crescere, verdeggiare, disseccare in determinati periodi di giorni, allo stesso modo che anche gli animali son concepiti, sono formati, nascono nei limiti e periodi di tempo stabiliti, e percorrendo le varie età giungono alla vecchiaia e alla morte, e così tutti gli altri esseri temporali.[1]

Questo passaggio, per inciso, lascia intendere quanto sia imprudente, ogniqualvolta si trovino nei testi tradizionali termini come “terra” o “mondo”, interpretarli esclusivamente nel senso materialistico che li identifica solo con questo mondo.

Quello che il linguaggio teologico occidentale chiama “creazione primigenia”, (l’Eden), ha i suoi corrispondenti anche in altre tradizioni spirituali. Nella tradizione indù, ad esempio, il “mondo ideale” dove sono contenuti tutti i “germi” e le possibilità dell’esistenza manifestata è detto Hiranyagarbha (letteralmente “L’Embrione d’Oro”, o “l’Aureo Grembo”),[2] che è il principio di tutte le forme, siano esse “sottili” o “grossolane”.  L’Hiranyagarbha è anche il “luogo” dove può giungere, dopo la morte fisica, l’essere che ha conseguito “l’immortalità virtuale” (in termini occidentali diremmo la “salvezza”) e che è identificato con il Brahma-Loka (il “luogo di Brahma”, ovvero, in termini monoteisti occidentali, il Paradiso).[3]

Il “corpo” di Adamo

Adamo ed EvaUn discorso analogo a quello fatto riguardo alla “terra” dell’Eden può applicarsi alla questione del tipo di “corpo” posseduto dai nostri Progenitori edenici.

La scienza materialistica moderna, allo scopo di promuovere la sua “genesi atea”, risponde affermando che i primi uomini altro non erano che primati casualmente evolutisi in forme via via più “moderne”. A tal scopo, legioni di paleontologi hanno scavato in lungo e in largo giacimenti fossili africani nel tentativo – peraltro regolarmente frustrato – di ritrovare i resti del “primo e vero” uomo apparso sul pianeta.

Nella tradizione biblica, al contrario, il “corpo di Adamo” è una realtà ben diversa da quella che qualunque interpretazione materialistica e letteralistica può anche solo immaginare. Come riporta Gershòn Schòlem, nella Tradizione Ebraica –e soprattutto negli ambienti più vicini alle idee della Qabbalà- era largamente diffusa l’idea che “prima del peccato di Adamo, anche il corpo fosse spirituale, una sorta di indumento etereo che divenne corporeo solo dopo la sua caduta. (A sostegno di questa concezione, l’affermazione in Gen. 3:21, che Dio fece “indumenti di pelle”, Kotnot’or, per Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden, fu interpretata nel senso che essi in precedenza avevano portato “indumenti di luce”)”[4].

Per intendere meglio cosa si intenda con tale concezione, tuttavia, è necessario innanzitutto conoscere gli esatti termini ebraici che indicano la “sostanza” dalla quale, secondo il racconto biblico, il corpo del primo uomo viene tratto.

Normalmente, a partire da una lettura piuttosto riduzionistica, nel linguaggio religioso si afferma che l’uomo fu formato da Dio con la “polvere” del suolo in cui Egli soffiò nelle “narici” un alito (neshamàh) di vita (Gn 2,7). Ma in realtà, questa espressione necessita di una spiegazione. La “polvere” (עפר, ‘aphàr) da cui Adamo è tratto, indica infatti la parte più sottile e leggera di un elemento che nelle traduzioni moderne della Bibbia viene reso normalmente come “terra”, ma che il testo biblico indica come ha-adamàh (האדמה), termine assolutamente diverso da ’eretz, (ארץ) che in ebraico indica invece la “terra” nel senso più comune e mondano.

Secondo il suggerimento di Antoine Fabre d’Olivet,[5] il termine ha-adamàh non indicherebbe affatto la “terra” in senso grossolano ma, più specificatamente, “l’elemento adamico”, ovvero la “sostanza” non solo “materiale” nella comune accezione del termine, da cui l’uomo primordiale sarebbe stato tratto. L’adamàh da cui Adamo è stato tratto, dunque, sarebbe la “materia prima” primordiale, in cui sono presenti, al tempo stesso, tutte le “possibilità” sia fisiche che sottili della creazione. Non un corpo “materiale e caduco”, dunque, e nemmeno un’anima disincarnata, ma un “corpo perfetto” in cui tutte le possibilità si dispiegano armoniosamente.

Di sicuro c’è che i termini adamàh e Adàm contengono ambedue la radice dam (דָם) che indica il “sangue” e il colore “rosso”: ha-adamàh è quindi la “materia rossa” da cui è tratto l’uomo. Il riferimento al colore rosso, tuttavia, non è casuale: ad un livello più superficiale di esegesi, c’è chi ha ricollegato questo simbolo al colore dell’argilla da vasaio (che è rossa); ma il colore rosso simboleggia anche, in molte tradizioni, l’elemento animico del mondo intermedio, connesso col sangue. Da questo punto di vista, ha-adamàh sarebbe più propriamente la “materia prima”, la materia sottile dell’Eden in cui sono presenti, a livello di possibilità, tutte le potenzialità della realtà fisica e di quella sottile.

In questa prospettiva, è davvero interessante il riferimento ad un passo di San Paolo contenuto nella 1° Lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo spiega come il corpo del “primo uomo”, Adamo, non fosse strictu senso un corpo “carnale” o “terreno” ma (letteralmente) un “corpo psichico”:

Così sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo (Cristo, n.d.a.) è spirito vivificante. Così che non c’è prima ciò che è spirituale (pneumatikòn) ma ciò che è psichico (psychikòn).[6]

E ancora:

 Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico (sôma psychikón) e risorge un corpo spirituale (sôma pneumatikón).[7]

È significativo che San Paolo non usi, per indicare il corpo ereditato dal primo Adamo, il termine “terrestre” (che nel greco neotestamentario è epighéion), ma specificatamente il termine “psichico”. Il corpo del primo Adamo non è dunque “solo” un corpo grossolano come quello dei suoi discendenti, ma una realtà sottile, dove le possibilità fisiche esteriori sono unite alle possibilità animiche proprie all’elemento intermedio (psiché) della triade umana. Solo con la “caduta”, Adamo perde la “sottigliezza” del corpo originario per rivestirne esclusivamente l’aspetto grossolano.

La questione del “corpo di Adamo” ha suscitato aspre polemiche fin dai primi secoli del Cristianesimo tra chi sosteneva un’interpretazione estremistica e dualistica – per la quale il corpo materiale sarebbe stato in quanto tale una prigione e un “male” acquisito solo dopo la caduta – e chi, al contrario, vedeva nel corpo una realtà positiva e in ogni caso connaturata all’uomo fin dal principio.

La prima interpretazione, quella dualistica, fu sostenuta da un certo gnosticismo estremista e fu persino attribuita (benché erroneamente) ad un padre della Chiesa come Origene.[8] Tale interpretazione rimanda al versetto di Genesi 3, 21, dove si afferma che, dopo la Caduta, Dio rivesti l’uomo di “tuniche di pelle”: «E l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie delle tuniche di pelle, e li rivestì». Tali “tuniche di pelle” furono interpretate da alcuni gnostici in chiave dualista come il corpo umano stesso che Adamo non avrebbe posseduto nella condizione edenica[9]; ma contro tale tesi si posero, di fatto, tutti i Padri della Chiesa che, conformemente all’insegnamento ortodosso, identificarono nelle “tuniche” non tanto il corpo in sé, quanto la sua degenerazione e animalizzazione.

Già Clemente Alessandrino, gnostico “ortodosso” e fedele alla Chiesa, afferma che è un errore identificare le “tuniche di pelle” con il corpo (Stromati, 3, 14); ma sarà soprattutto San Gregorio di Nissa, grande maestro del Cristianesimo orientale dei primi secoli, a definire con maggiore chiarezza la questione. Secondo il Nisseno, il corpo umano, pur essendo presente anche prima della caduta, ha subito un processo di degenerazione passando ad uno stato in cui è stato reso schiavo – al pari degli esseri irragionevoli – delle necessità biologiche e del divenire. Il corpo umano è divenuto in tal modo «di grassa e pe­sante costituzione»;[10] e tuttavia, afferma il Nisseno, all’atto della risurrezione, esso riacquisterà la sua natura anteriore alla caduta e sarà «di nuovo tessuto di qualcosa di più sottile ed etereo».[11]

Copertina e QuartaL’uomo primordiale, dunque, non era un essere puramente spirituale e incorporeo (come pretende un certo dualismo esasperato), eppure il suo corpo non aveva nulla della pesantezza e dalla “carnalità” di quello attuale.

Per guardare a ciò che l’uomo fu, ancora una volta, bisogna quindi guardare a ciò che l’uomo sarà chiamato ad essere: il corpo dei risorti, infatti, può essere ben paragonato al corpo primordiale dell’Adamo edenico, così che l’Origine e il Fine dell’uomo si illuminano vicendevolmente.

 

 

 

[1] De Genesi ad litteram, 11, 27.

[2] Cfr. R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, pp. 92-93.

[3] Ibidem, p.143.

[4] G.Schòlem, La Cabala, Ed. Mediterranee, Roma 2010, p. 157

[5] A. F. D’Olivet, La lingua ebraica restituita, Arché-PiZeta, Milano 2002, p. 413.

[6] 1 Corinzi, 15, 46.

[7] 1 Corinzi, 15, 42-44.

[8] Origine, in effetti, mai affermò che il corpo umano in sé fosse il risultato della caduta, bensì la sua degradazione: «Che bisogna inten­dere con l’espressione “tuniche di pelle”? Sostenere che Dio, dopo aver tolto la pelle da alcuni animali… si mise a fare delle tuniche […] come se fosse lavo­ratore di cuoio, è da stolti e rimbambiti, perché si afferma una cosa che non si addice a Dio. Identificare poi le tuniche di pelle con i corpi, questa interpretazione è più probabile e suggestiva, ma non può considerarsi né veritiera né certa: se infatti le tuniche di pelle corrispondono con la carne e con le ossa, come ha fatto allora Adamo a dire, prima ancora che esse esistessero: «Questa Eva, sì, è osso delle mie ossa e carne della mia carne”?» (Origene, Omelie sulla Genesi, 3, 2, PG 12, 101°).

[9] Filone d’Alessandria, esegeta israelita delle Scritture vissuto poco prima di Cristo, è forse il primo a intendere la creazione delle “tuniche di pelli” nel senso della formazione del “corpo umano” che, pertanto, non sarebbe esistito nello stato edenico (Quaest. Gen., I, 53). Anche gli gnostici valentiniani, secondo la testimonianza di Tertulliano (Adv. Val. 24), leggevano Gen 3, 21, come se le “tuniche di pelli” significassero il corpo dell’uomo. Anche San Ireneo riferisce che «[gli gnostici]sostengono che la tunica di pelle sia la carne sensibile» (Adv. Haer., I, 5 , 5). Le medesimi convinzioni erano proprie anche degli encratiti e dei messaliani, che definivano il corpo umano “vestito di vergogna”. Secondo tutte queste interpretazioni, pertanto, il corpo umano in quanto tale sarebbe estraneo alla natura umana primordiale e la salvezza consisterebbe nel liberarsene.

[10] Gregorio di Nissa, Omelia per i defunti, PG46,532C.

[11] Gregorio di Nissa, L’anima e la Resurrezione, PG 46, 108A.

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  3. Angelo Ciccarella on

    Non ti offendere, ma leggendo il pezzo preso dal tuo ultimo libro, ho avuto l’impressione e la sorpresa graditissima, di trovarvi una teoretica alla Guénon ma di matrice cattolica. È pura metafisica del corpo. Per me è miele liquido, nettare dell’anima. Ottima prova. Mi hai convinto, acquisterò il libro.
    Detto fra parentesi, non so se a Bergoglio piacerà? Ma certo che no. Fattene una ragione.

  4. andrea pedditzi on

    è un libro che merita di essere non solamente acquistato, ma rimuginato; un libro che una volta letto non è da mettere sullo scaffale per poi dimenticarsene. Questo libro apre questioni della massima importanza per chi ancora non si è arreso al nichilismo imperante e trionfante di marca materialistica.

    • Io credo che satana uccise degli animali e li fece mangiare a Adamo ed Eva è Dio prese le pelli e copri la vergogna per fargli capire cosa avevano fatto loro dovevano mangiare frutta e semi ma hanno disubbidito mangiando sacrifici e sangue chiama sangue . Questo è tutto SEMPLICE .

  5. Ritengo utile richiamare l’attenzione sul rapporto esistente fra il Gan Eden e la Gerusalemme Celeste. Questo rapporto, già segnalato da diversi autori ed in particolar modo da R. Guénon, si evidenzia nella stessa simmetria di questi due “luoghi” rispetto al ciclo di esistenza, rispettivamente, all’inizio e alla fine, sottolineato anche in alcune opere, quali la Commedia di Dante, nella disposizione simbolica ai due antipodi del globo terrestre.
    Questo rapporto è anche quello fra simbolismo vegetale, che esprime la pienezza delle possibilità vitali di sviluppo, e quello minerale che indica il loro compimento e la loro cristallizzazione nell’esito del processo ciclico che si aprirà a “nuovi cieli” e ad “una nuova terra”. Entrambi i luoghi sono circondati da una recinzione di mura, per indicare che proprio per la rigidità delle limitazioni corporee essi non sono comprensibili dall’uomo ordinario e dunque da questi raggiungibili. Gan Eden ha come gematriah 177 che è lo stesso numero di Sambation, il fiume in cui scorrono pietre in luogo dell’acqua e oltre il quale si dice siano state confinate le 10 tribù perdute di Israele (N. Crivelli, I Numeri del Segreto, p. 118. Questo fiume di pietre rappresenta molto bene ciò che l’uomo decaduto non può superare fino a che non abbia rimediato alla perdita della sua condizione originaria.
    Questa “pietra fluida”, come quella che si ritrova nelle impronte sulla pietra che in diverse tradizioni sono il supporto e la manifestazione di particolari presenze spirituali, è il simbolo di quello psychikòn soma la cui perfezione è la piena potenza per lo sviluppo dello pneumatikòn soma del nuovo Adamo.
    La sua stretta negazione, cioè il suo contraddittorio è il corpo disanimato dei materialisti, ma la sua massima negazione, quella che nella logica aristotelica si direbbe, non il contraddittorio, ma il suo diretto contrario, è la massima separazione fra la realtà psichica e quella corporea. Questo completo dualismo è la disanimazione del corpo e la disincarnazione in vita dell’anima, ma, poiché si tratta di due realtà complementari, la loro artificiale separazione è anche il loro snaturamento. Perciò, si tratta anche della disanimazione dell’anima e della decorporeizzazione del corpo.
    Nella sua massima rigenerazione la corporeità raggiunge anche la sua massima integrazione con l’elemento sottile che ne è il principio immediato. Detta unificazione presuppone del resto la sua piena disposizione a divenire spirituale, cioè a realizzare pienamente nella Sostanza ciò che caratterizza l’Essenza. In questo grado, in cui la stessa polarizzazione di Essenza e Sostanza è superata, si è già oltre lo Stato Edenico, in quanto questo stato è la traccia stessa dell’Essere Puro. Un velo separa lo stato di resurrezione dei corpi dall’Essere come Principio della Creazione (o Manifestazione). Questo velo è la loro apparente molteplicità. Apparente, in quanto essa è tale soltanto per gli esseri la cui liberazione non è ancora realizzata attivamente e che pertanto saranno destinati a ritornare nella Manifestazione, nel ciclo successivo.
    L’espressione Terra Vera, richiama dunque la Realtà suprema delle cose, in cui queste sono immerse, giunte al loro compimento. Questo compimento è, ad un tempo, la loro fine ed il loro fine, cioè la piena realizzazione delle possibilità che esprimono.
    Il riferimento alla terra è innanzitutto quello di un luogo, anzi, del Luogo per eccellenza, il Centro della manifestazione nella sua modalità corporea. Ma la terra come luogo richiama per metonimia anche la “terra” come ultimo del ciclo degli elementi, in cui le possibilità di questo si esauriscono, per dare luogo a quelle del ciclo successivo. Ciò è di nuovo riferito all’aspetto di compimento, ma a differenza della Gerusalemme celeste, il cui carattere spirituale è sottolineato dall’aggettivo, questo centro fa riferimento alla condizione di compimento virtualmente realizzato già prime della fine del ciclo stesso, alla porta dell’Eterno presente. Infatti Maqom, luogo, ha come gematriah, 186 che è anche il numero di tsaphui, atteso, destinato, Inoltre è il numero di tselem Y-H-V-H, immagine di Dio (cfr. N. Crivelli, I numeri del segreto, p. 120).
    In questo caso, la terra, non è più adamah, ma iabashah, secchezza e aridità. Si tratta del principio stesso del compimento di ciò che ha una fine, presente fin dall’inizio del suo manifestarsi, così come è scritto nel Genesi: “e il Signore chiamo ‘Terra’ l’elemento secco (iabashah)” (Gen. 1.10) e anche: finché non si ritirarono (disseccarono: ieboshet) le acque (Gen. 8.7).
    Ora questo “principio di compimento”, presente fin dall’inizio di un ciclo maggiore o minore, si cela, nella fase più avanzata della manifestazione ciclica, nella desolazione della terra, che pure, ne è l’opposto. La differenza, sta nella virtualità che è propria di iabashah che è quella di essere pronta a trasformarsi in adamah, per mezzo dell’elemento umido che rappresenta la possibilità nel ciclo venturo, ricevendo quell’elemento igneo che è simboleggiato da ha-dam, il sangue, secondo quanto si trova detto nel libro dell’Esodo: l’acqua che avrai preso dal Nilo, diventerà sangue sulla terra secca (iabashah) (Es. 4.9).

  6. Il punto davvero cruciale è se l’essere è partecipazione oppure caduta, degradazione, emanazione, manifestazione. Detto in altri termini, se l’essere è bontà, dono di un Amore infinito, oppure prigione, illusione, costrizione, malvagità, negazione. Qui non si tratta di usare un linguaggio teologico o uno metafisico, né di letteralismo o esoterismo. Qui si tratta della comprensione profonda della Rivelazione primordiale. Il Verbo si è fatto carne perché la carne è buona, come ogni sua opera. Ed il corpo di Cristo non imprigiona la Sua Divinità, nè ne è una emanazione. Il corpo di Cristo, che continuiamo a toccare nell’Eucarestia, non è illusorio, apparente. Quel corpo, del tutto carnale, è risorto nella carne trasfigurata, certo attingendo a stati dell’essere onnipotenti, ma non “replicandosi sottilmente” ossia lasciando cadere, nella corruzione, la sua intrinseca carnalità.

    Un abbraccio fraterno.

    Luigi

    • A me sembrerebbe che piuttosto debba essere l’inverso: la carne è buona perché il Verbo vi si è incarnato: pensare diversamente, significherebbe immaginare che qualcosa possa essere buono senza l’intervento del Logos, oppure, dare alla Sua Incarnazione il senso di un fatto compiutosi soltanto per un dato momento della Storia, condizionato da ciò che vi era prima, come un evento naturale. Mi sembra anche che Lei associ una serie di termini come, manifestazione, emanazione, costrizione, che non sono affatto dei sinonimi, ma hanno al contrario significati incompatibili. In realtà, l’emanazione, se l’intende, come la intendevano i neoplatonici, o come possono intenderla i cabalisti, non ha nulla a che vedere con manifestazioni di sorta, in quanto è, almeno in se stessa, non soggetta al divenire.
      In quanto al corpo, credo che le lingue moderne non consentano di liberarsi da una certa ambiguità. In passato i cristiani distinguevano fra “questo corpo” e “il corpo”, esattamente come distinguevano fra “questo mondo” e “il Mondo”. Certo che il corpo non è privo di realtà, ma se lo si immagina come un qualcosa che sta per sé, che ha una qualche realtà indipendentemente dal suo Principio creatore, allora non è più che un’illusione, che non significa ancora un niente, così come non sono un niente un miraggio o un sogno, ma solo un qualcosa che non si rivela per quello che realmente è.
      Per questo motivo, sarebbe preferibile distinguere, quando si parla di realtà finite, o create, per usare il linguaggio proprio del cristianesimo, di esistenza (da existere = ex + sistere = derivare il proprio essere da altro). Mi risulta davvero impossibile pensare che una cosa finita sia “essere”, ovvero che non si limiti a partecipare dell’Essenza, come Lei giustamente dice all’inizio, ma la possegga in proprio.

      Cordiali saluti

      • Appunto, l’essere esiste in dipendenza dal Principio. Dal Dio Vivente. L’essere è partecipazione, non caduta dal Centro verso una periferia quale conseguenza di una degradazione o di una emanazione. Esiste un “Plato christianus” ed un “Plato non christianus”, come avevano ben compreso i Padri della Chiesa. Nella citazione di Agostino, usata dall’amico Marletta, è evidente un residuo non ancora ben digerito di platonismo, che lo stesso Ipponate in altre sue opere supererà chiaramente trattenendo solo quel che del platonismo è espressione coerente della Rivelazione Universale. Lo stesso può dirsi per la tradizione cabalista. Gershom Scholem ci ha spiegato molto della Cabala ma non ha mai distinto, come fa invece Julio Meinvielle, sulle sue varie correnti in relazione alla Rivelazione biblica (che lo scrivente non accoglie in modo letteralista, perché non sono affatto protestante) per saggiare quanto di “Plato christianus” e quanto di “Plato non christianus” vi è in dette diverse correnti cabaliste. Come tramanda una antica tradizione, presente anche nell’ebraismo e nell’islam, il peccato di Lucifero, al momento della prova cui furono sottoposti gli angeli viatori, fu quello di non voler aderire alla prospettiva dell’Incarnazione futura del Verbo. Incarnazione in previsione della quale il Kosmos, nella molteplicità dei suoi stati, è stato da Dio creato per partecipazione ontologica. Lucifero, puro spirito, ebbe “orrore per la carne” e per la prospettiva kenotica di un Dio che si sarebbe incarnato. L’orrore di Lucifero è spiegato, in quella antica tradizione abramitica, quale conseguenza della convinzione degli angeli ribelli secondo la quale la materia – periferia estrema ed oscura della “manifestazione” o “emanazione” – sarebbe decadenza, prigione dello spirito. Ora, tutti questi concetti si ritrovano, puntualmente, in un certo tipo di esoterismo e, lungo i secoli, nelle varie correnti di pseudo-gnosi confliggenti con la Rivelazione(come il catarismo ad esempio o alcune correnti cabaliste da cui ha preso mossa lo spiritualismo massonico). Per quanto riguarda il corpo, faccio umilmente osservare che non è necessario ipotizzare corpi dematerializzati all’origine, per l’Adamo primordiale. L’uomo è esistito, sin dalla sua comparsa (non certo per evoluzione darwiniana), nella sua triplice dimensione spirito-anima-corpo. Non ha assunto un corpo materiale quale conseguenza di una caduta nell’oscurità della materia, seguendo la discesa cosmica supposta da certo esoterismo. L’Uomo Adamitico, carnale quanto noi, viveva però in comunione con lo Spirito di Dio e questo lo rendeva immune dal divenire biologico come lo abbiamo conosciuto oggi noi, nella situazione postadamitica, a causa dell'”eritisi sicut Dei” ossia della tentazione, luciferina, non superata di farsi Dio da sé, di auto-divinizzarsi, anziché attendere la deificazione, ovvero l’assunzione negli stati superiori dell’essere, come dono gratuito dall’Alto. Per comprendere la condizione dell’Uomo Adamitico basta volgere lo sguardo alla fenomenologia soprannaturale che caratterizza la vita spirituale dei mistici. Dalla cardiognosi, al digiuno protratto nel tempo, al Fuoco interiore, alla moltiplicazione del cibo, alla levitazione estatica o meno, alla immunità da malattie etc. Tutta questa fenomenologia testimonia di una dimensione originaria, perduta dall’umanità e restituita per grazia nei mistici, che poneva l’essere umano, del tutto corporeo, al riparo dai limiti e dalle condizioni – fame, freddo, malattie, etc. – proprie dello spazio-tempo cui sono invece soggette le altre creature non infuse dal Ruach.

        Cari saluti.

        Luigi

        • La dottrina di Agostino, esposta nel passo citato, non solo risulta fondante ed essenziale nel pensiero di questo autore, ma è dottrina costante che si ritrova chiaramente esposta dalle origini del cristianesimo fino almeno a tutto il XII sec., ma ancora in parte nel XIII, da Paolo, a Basilio, ad Ambrogio, e poi Eucherio, Mario Vittorino, Beda, Rabano Mauro, Walafrido Strabo, Bruno Astense, Ugo da San Vittore, Bernardo di Chiaravalle, Onorio di Autun e potrei sicuramente continuare. Se ne avesse piacere, potrei citarLe uno per uno gli autori menzionati sopra e vedrebbe che, con poche sfumature, la dottrina è sempre la medesima: il tempo è esso stesso una “creatura” per cui la creazione è avvenuta, almeno nella sua essenza, “ante tempora” o, come dice Basilio in greco, ἀχρόνως, nell’Eternità.
          E’ soltanto a partire dal XIV sec. che questa comprensione viene in parte a mancare e, conseguentemente, la dottrina della c.d. “predestinazione” di San Paolo, prima estremamente chiara, essendo logicamente connessa a quella della creazione, diviene ovviamente incomprensibile ed oggetto di interminabili questioni che porteranno poi alle posizioni opposte del cattolicesimo e del protestantesimo su questo punto. Di fatto, la posizione dell’attuale Catechismo cattolico è ancora quella corretta, sostenuta dai Padri. Non è la stessa cosa per la teologia contemporanea, proprio a causa dell’incomprensione sulla dottrina della creazione.
          Riguardo ancora al corpo, se ciò che Lei intende è che esso non è, in sé, conseguenza della “caduta”, possiamo essere d’accordo su questo punto. Allora, però, non vi è neppure alcun disaccordo, né col platonismo (che poi, secondo Platone, non era altro che un pitagorismo), né con altre dottrine tradizionali come la Qabbalah, il Vedanta o l’Islam. Occorre, piuttosto, ricordare che il corpo rigenerato (come quello adamico prima della caduta) è comunque ontologicamente differente da quello conseguente al peccato originale.
          Confesso che non riesco bene a comprendere che cosa Lei intenda per “corpo materiale” (ed ancor meno con “corpi dematerializzati”), in quanto se la parola materia non viene assunta come un semplice sinonimo di corporeità, oppure non traduce la ὔλη di Aristotele, mi suona del tutto priva di significato. Dire “corpo materiale”, per me, è come dire “corpo corporeo”.
          Cordiali saluti.

          • Non dimentichiamoci che quando Paolo di Tarso parlò ai filosofi ellenisti dell’Areopago questi lo ascoltarono attentamente fino a quando l’apostolo introdusse la fede nella resurrezione dei corpi, che per la concezione platonica era una cosa impensabile dal momento che la materia, intesa proprio in senso materiale, e quindi il corpo in senso biologico, è il male in sé. E se è vero che Dionigi lo pseudo-areopagita, pur essendo un autore secondo alcuni del V secolo e secondo altri del II secolo, è stato, tradizionalmente, messo in relazione con il Dionigi che seguì Paolo dopo l’incontro con i filosofi greci, ciò è dovuto al fatto che il pensatore cristiano che passa sotto tale nome fu tra i primi a sintetizzare la fede cristiana e l’eredità platonica ancorata nella Philosophia Perenne ma non priva, anche quest’ultima, di, come dire, “inquinamenti”, causa l’“eritis sicut Dei” di Gen. 3,5, rispetto alla stessa sua Fonte originaria ed “immacolata”.

            Agostino ha anticipato di secoli quel che, più tardi, la scienza ha finito per scoprire ossia che, appunto, il tempo stesso ha un inizio ontologico (non temporale). Questo smentisce la convinzione tipicamente non biblica dell’eterno ritorno ossia dell’eternità non creata del mondo (la ciclicità trans-storica nell’“Io sono l’Alfa e l’Omega” della storia, dimensione solo umana, non animale, che ha un inizio ed una fine sul piano meramente temporale, non ha nulla a che fare con la concezione ciclica del tempo ma con il disegno di salvezza). La creazione non ha avuto un inizio all’interno di un flusso temporale perché lo spazio-tempo (che oggi sappiamo essere un tutt’uno) non esisteva prima del mondo, il quale è da circa 13 miliardi di anni. Cosa c’era prima, dal punto di vista immanente, non è possibile dirlo. Infatti, Agostino, nello stesso passo delle “Confessioni” nel quale tratta del tempo come creatura e quindi come dono ontologico di Dio, prende in giro chi si pone la domanda “cosa faceva Dio prima di creare il mondo” e risponde ironicamente che Dio, prima di creare il mondo, stava preparando l’inferno per chi si pone tali domande.

            Il mondo, in termini immanenti, inizia da 0 + x dove x può essere piccolo quanto si vuole – secondo la teoria del Big bang è un puntino più piccolo di un milionesimo di milioni nel quale era però contenuto già tutto lo spazio-tempo, la materia nonché le leggi che presiedono al dinamismo del cosmo – ma è tuttavia una grandezza quantitativa. Ecco perché non può parlarsi di inizio temporale del mondo, dato che il tempo era esso stesso contenuto nel puntino x, ma soltanto di inizio ontologico, di donazione, per partecipazione, dell’essere, il quale quindi non è una caduta, un male, bensì un dono d’Amore. Cosa c’è oltre l’x, ossia cosa è lo 0, non è possibile dirlo nei termini immanentisti della scienza. Esattamente come aveva compreso Agostino. Il quale però, per sottolineare, la bontà ontologica di x, ossia della creazione, come da Rivelazione biblica, si allontana dal platonismo (frequentato durante la sua fase manichea) e del pensiero platonico mantiene solo quanto è “praeparatio evangelica” ovvero “propaideia Christou”.

            Proprio parlando del corpo come elemento della creazione materiale (quindi anche di quest’ultima in senso lato), Agostino – in sintonia con gli altri Padri della Chiesa, benché ciascuno di essi ha le peculiarità proprie di pensiero, linguaggio ed espressione – afferma chiaramente che la creazione è un atto di amore di Dio postulando, pertanto, un inizio, non temporale, ma ontologico del mondo. Questo vale anche per il livello “angelico” della creazione, quello dei puri spiriti. Quindi la creazione non è una caduta nell’essere, una emanazione dalla stessa sostanza divina, un allontanamento o una degradazione negativa che “condensa” o “ossifica” un prius puramente spirituale, anonimo, impersonale e senza distinzioni sicché le creature, che dal processo di degradazione o emanazione, sorgerebbero porterebbero in sé lo stigma del “male ontologico”, ovvero del “peccato”. Questo modo di vedere le cose – che è, ad esempio, tipico di un certo cabalismo platonizzante o anche del vedantismo – non appartiene alla Rivelazione abramitica che è una eccezione nel panorama spirituale dell’umanità.

            Per quanto riguarda la cosiddetta “creazione simultanea” essa, sostenuta dalla Patristica, è accolta da Agostino sia ne “La Città di Dio” che nel “De Trinitate” ed in altre opere. Però sia i Padri che Agostino non danno di essa una interpretazione in contrasto con il dinamismo del racconto del Genesi, ossia una interpretazione per cui ad un modello perfetto ed ideale, “celeste”, del mondo consegue, per caduta ontologica nella oscurità della materia, un mondo segnato, intrinsecamente, dal male identificato nell’insufficienza ontologica del riflesso mondano dell’archetipo iperuranico. Anche il riflesso mondano ha una sua propria, relativa, perfezione ed è quindi buono. Più tardi, san Francesco d’Assisi avrebbe espresso questa verità cristiana nel suo Cantico delle creature lodando il Signore per il dono del mondo perché “di Te, Altissimo, porta significatione”. Secondo Agostino si deve distinguere tra creazione propriamente detta, atto immediato e indivisibile, il cui primo prodotto è la materia informe, e la formazione graduale e visibile del mondo, dovuta alle forze depositate dal Creatore nel seno della natura, secondo una progressione di sviluppo di cui il Genesi cerca di comunicare il significato metafisico ed essenziale.

            Dato che si è chiamato in causa il santo di Ippona, è il caso di andare a verificare direttamente dalle fonti cosa egli dice. Gli argomenti che ci impegnano sono trattati, con maestria metafisica, nei Libri XI, XII e XIII de La Città di Dio che sono da leggere con attenzione, naturalmente al netto di alcune convinzioni del suo tempo ed oggi del tutto superate, come i “seimila anni” della creazione (ai quali neanche lui tuttavia da molto credito).

            Cari saluti.

            Luigi

  7. A mio avviso, la Sua posizione è in qualche modo condizionata dal modo in cui, di fatto, i cristiani moderni tendono a interpretare il cristianesimo. Questo produce ai miei occhi dei paradossi, come quello per cui Lei sembra scambiare, nell’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli, le diverse visioni delle cose proprie delle due parti in causa: se c’era qualcuno che aveva grande diffidenza verso il “corpo biologico” questo era proprio San Paolo, e se c’era qualcuno che poteva eventualmente dargli un valore ontologico erano proprio i membri dell’Areopago.
    La dottrina di Paolo è molto chiara: vi è proprio un salto ontologico fra il corpo ordinario e quello immortale che l’uomo possedeva prima della caduta. Il corpo “biologico” se così lo vogliamo chiamare, non è soltanto imperfetto e mortale, ma è ontologicamente soggetto alla legge della caduta, proprio la degradazione che Lei sembra così tanto avversare. Trovo in me, nel momento in cui vorrei fare il bene, una legge che mi costringe al male (…) vedo nelle mie membra una legge estranea che è in conflitto con la mia natura mentale, (repugnantem mentis meae) che mi imprigiona nella legge del peccato, che si trova nelle mie membra: “invenio igitur legem, volenti mihi facere bonum, quoniam mihi malum adiacet (…) video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivantem se in legem peccati, quae est in membris meis” (Rm. VII.21 – 23). In “questo corpo” non vi è, secondo Paolo, alcunché di buono: Scio, enim quia non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum (Rm VIII.18). Perciò questo corpo è la fondamentele forma di condanna dell’uomo che deve per prima cosa liberarsene: Infelix ego homo, quis me liberabit de corpore mortis huius? (Rm. VIII. 24). Per tale motivo, fino a che siamo imprigionati in questo corpo, erriamo lontani da Dio: “dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino” (II Cor. V.6).
    Il male non è dunque nella creazione in sé, ma nella caduta ontologica del peccato. Tuttavia, si deve anche ammettere che il male stesso è una possibilità insita nella creazione stessa, in ragione del libero arbitrio. Questa possibilità di male non è a sua volta un male in quanto ogni male relativo coopera involontariamente al Piano Divino e non è dunque un male assoluto e definitivo, se visto nella totalità di tale piano. E’ solo in questa diversa modalità di comprensione che consiste tutta la differenza rispetto alla nozione di illusorietà che è propria di Platone come di molte altre dottrine tradizionali, che è, su un piano profondo, ad essa equivalente.
    I membri dell’Aeropago, come è detto chiaramente in At. 17. 32, non si scandalizzarono certo perché Paolo avrebbe dato un particolare valore al corpo, ma piuttosto perché parlava di resurrezione dei morti. Infatti, “Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: <>” (At. XVII. 32). In effetti, a quell’epoca molti greci, lungi dal vedere il corpo come un male, pensavano, con Epicuro, che l’anima non fosse altro che una parte più sottile del corpo, che era l’unica vera sostanza dell’uomo: pertanto, quando il corpo moriva, questa sostanza più sottile, si disperdeva (Ep. ad Erodoto, 63 – 66).
    Potrei facilmente dimostrarLe che Agostino non la pensava diversamente dagli altri cristiani sia antichi, che medioevali, sia, nel De Trinitate, che nelle altre opere. Se prova anche soltanto a leggere l’incipit del I libro del De Trinitate, se ne renderà subito conto: è impossibile conoscere Dio “secundum corpus”. Si tratta di una vera e propria malattia (morbus) e non dunque di una mera impostazione teorica. Del resto, l’essenzialità per il cristiano del profilo ontologico della caduta, deriva dalla stessa dottrina del “peccato originale”. Qualcosa che si trasmette di padre in figlio per tutta la specie umana e persino per cose ed animali, non può che essere una degradazione ontologica e non un fatto meramente morale. La rigenerazione operata in virtù della Grazia ha avuto perciò ontologicamente bisogno addirittura della “morte e dello svuotamento (Κένωσις) di Dio” per realizzarsi.
    In realtà, esisteva anche, fin dalla tarda antichità e dal medioevo, una posizione che invece sottovalutava la differenza fra il corpo corrotto dalla “caduta” e quello originario, riducendola ad un fatto essenzialmente morale: era la posizione dei pelagiani e più tardi venne ripresa da Pietro Abelardo, che riteneva che la Morte di Cristo non sarebbe stata di per se necessaria, se Dio lo avesse voluto, ma era stata realizzata soltanto come esempio morale per gli uomini. Sotto la pressione, soprattutto, di Bernardo e dei cistercensi, questa posizione fu, però, ben presto dichiarata eretica (concilio di Sens, aprile – maggio 1140).
    La posizione di Platone, che è poi quella degli orfici e dei pitagorici, su tutti questi punti non è, invece, diversa da quella cristiana ortodossa: il corpo è σῆμα, tomba e prigione dell’anima, ma anche segno, simbolo, da cui questa può partire per ricordare, la sua natura immortale che non era solo tale per la parte animica (così ricollegata allo spirito) rappresentata dal Cielo, ma anche per quella corporea (del corpo ontologicamente rigenerato), rappresentata dalla Terra. Così, la defunta trovata ad Hipponio, in Calabria, portava con se arrotolata, una laminetta aurea in cui era scritto cosa avrebbe risposto, nel suo dialetto greco, ai custodi dell’al di là: “Yos bareas, kai ouranou asteroentos”, Sono figlia della Terra e del Cielo stellato.
    Cordiali saluti.

    • Mi dispiace ma il problema è esattamente questo: il corpo prima del peccato è lo stesso di quello dopo il peccato ma privo – in quanto tutto l’uomo ne è rimasto privo – dell’unione con Dio e quindi, solo ora, soggetto alle limitazioni spazio-temporali. Non si tratta di un corpo altro che si corrompe o cade nella corruzione della materia, sicché risulta ora del tutto diverso da quello, supposto, originario. In quanto non ancora soggetto alle limitazioni spazio-temporali, pur vivendo nel mondo creato, l’uomo adamitico sarebbe stato integralmente assunto in Cielo. La “morte” dell’uomo adamitico sarebbe stata pertanto il passaggio dalla terra al Cielo in spirito, anima e corpo. Esattamente come nei casi di Enoch, Elia e, sopratutto, della Vergine Maria. Il peccato, che non ha “corrotto” ma solo “ferito” la natura umana, non è stato, certamente, un fatto meramente morale (quindi la posizione cristiana non è affatto pelagiana) ma un evento ontologico in relazione con una scelta metafisica consistente nell’autodeterminazione dalla radice divina dell’essere. Ritenere che in origine vi fosse un corpo altro rispetto a quello attuale, che quindi sarebbe degradazione ontologica, significa esattamente indicare nella creazione un evento negativo, un male. Platone doveva ricorrere al “demiurgo” per spiegare l’esistenza del mondo (illusorio rispetto all’iperuranio) prigione dello spirito. Nella Rivelazione biblica non è così ed i Padri dovettero selezionare il loro platonismo affinché fosse in linea con la Rivelazione.

      Saluti

      Luigi

      • Voglio precisare che non ho l’ intenzione di discutere sulle Sue personali convinzioni, se non altro perché, come ho già avuto modo di dire in un commento a questo blog, non ritengo che internet sia la sede adatta per trattare questioni oltre un certo grado di complessità. Perciò, se quel che Lei intende sostenere è che a Suo avviso le cose stanno in un certo od in un certo altro modo, potrei chiudere qui la discussione. Quel che mi lascia invece un po’ perplesso è che Lei voglia attribuire queste posizioni ai padri della Chiesa e al cristianesimo tout court. Il problema è che si rinvengono molti testi (anche scritturali) in senso contrario. Mi limiterò per adesso, per brevità, ad alcuni passi della Scrittura.
        Cominciamo da San Paolo. Innanzitutto, il corpo mortale non è paragonabile al corpo che risorge, ma ne è solo la radice potenziale, come il seme rispetto alla pianta: “Ma qualcuno dirà: “Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?”. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco […]. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile […] si semina il corpo soggetto alle limitazioni dell’anima individuale (σῶμα ψυχικόν), si raccoglie il corpo spirituale (σῶμα πνευματικόν) (1 Cor 15,35-37 e 42 – 44).
        Secondo la dottrina esposta da S. Paolo, il corpo terreno è una sorta di diminuzione ontologica rispetto a quello della resurrezione: “Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore Gesù Cristo, il Signore che trasformerà il corpo della nostra umiliazione nel corpo della Sua Gloria, mediante il potere che Egli ha di sottomettere a Sé ogni cosa” (Fil., 5, 20 – 21). Il testo originale dice: ὃς μετασχεματίσει τὸ σῶμα τῆς ταπεινώσεως ἡμῶν σύμμορφον τω σώματι τῆς δόξης αὑτοῦ” μετασχεματίζω, significa letteralmente “far passare al di là della forma”, mentre ταπεινώσις è propriamente “diminuzione, degradazione, abbassamento”, da ταπεινός, basso. “τὸ σῶμα τῆς ταπεινώσεως” è perciò “il corpo della degradazione”, o “dell’umiliazione”. E’ necessario, perciò, il potere del Salvatore per trasformare il corpo mortale nella conformità al Suo Corpo di gloria (σύμμορφον τω σώματι τῆς δόξης αὑτοῦ).
        Giovanni, nella sua prima Lettera, ci dice che ciò che saremo alla fine dei tempi “non è stato ancora rivelato” mentre sappiamo solo che saremo simili a Lui in quanto lo vedremo come Egli è (1 GV., 3.2). Occorre chiedersi in che cosa potrebbe consistere l’oggetto di questa rivelazione non ancora compiuta se, in fin dei conti, il corpo che risorgerà (e conseguentemente la stessa natura terrena), non subiranno cambiamenti essenziali, cioè saranno appunto gli stessi (= medesima essenza) di quelli attuali.
        Non mi è chiara la Sua distinzione fra natura umana “corrotta” e “ferita”. Inoltre, la conseguenza che Lei trae, per cui “Ritenere che in origine vi fosse un corpo altro rispetto a quello attuale, che quindi sarebbe degradazione ontologica, significa esattamente indicare nella creazione un evento negativo, un male”, non mi sembra affatto chiara, né, tantomeno, necessaria. Perché mai la differenza ontologica fra il corpo originariamente creato e quello attuale dovrebbe “indicare nella creazione un evento negativo”? Non è proprio il corpo originariamente creato da Dio ad essere parte di questa creazione nella sua più pura essenza?
        Lei dice: “il corpo prima del peccato è lo stesso di quello dopo il peccato ma privo – in quanto tutto l’uomo ne è rimasto privo – dell’unione con Dio e quindi, solo ora, soggetto alle limitazioni spazio-temporali.” Dovremmo dunque pensare, che dopo questa privazione, il corpo umano possa rimanere “lo stesso”, cioè che la sua essenza, rimanga identica, che equivarrebbe a dire che l’unione con Dio, ne rappresenta una modificazione accidentale, importante quanto si voglia, ma non incidente su tale essenza?
        A me sembra che ci si trovi di fronte alla seguente alternativa: o si ammette, come mi sembra anche Lei faccia, che a seguito del peccato originale, l’intera creazione, ha subito una radicale “perdita” ontologica, tanto radicale da non essere riparabile se non da un evento sopra-nnaturale cioè, letteralmente, al di sopra di qualsiasi potenzialità dell’intera creazione o natura, cioè dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo, oppure si crede che la creazione, ed il corpo umano con essa, abbiamo mantenuto in sé, anche dopo il peccato, la propria natura essenziale. In questo secondo caso, la rigenerazione e resurrezione, non sarebbe una vera “trasformazione”, ma una mera modificazione, in quanto l’essenza stessa di questo corpo sarebbe sempre la medesima e il passaggio allo stato immortale, un cambiamento accidentale, per quanto importante. In quest’ ottica, il corpo che risorge, sarebbe in tutto e per tutto lo stesso corpo mortale “risanato” e la differenza prospettata da S. Paolo non avrebbe alcun significato. Poiché, infine, ciò che è integro, nella propria essenza, può sempre rigenerarsi con le sue sole proprie forze, così come un organismo malato trova innanzitutto in sé la potenza della propria guarigione, anche se l’ausilio di una medicina, può essergli più o meno necessario di fatto per guarire, allo stesso modo, la natura mortale dell’uomo avrebbe in sé tutte le potenze necessarie per la propria resurrezione e quello della Grazia, non sarebbe che un ausilio, più o meno importante o necessario di fatto, a seconda dei casi, ma non assolutamente indispensabile, in linea di principio.
        In quanto a Platone, è chiaro che la concezione del Demiurgo che peraltro, non bisogna dimenticarlo, è una descrizione simbolica, non corrisponde alla versione cristiana. Tuttavia, occorre chiedersi, se, da un punto di vista funzionale, il peccato originale non svolga un ruolo del tutto analogo nel produrre una condizione oscura e discosta dall’essenza del Creato, tale da rendere necessaria la “giustificazione” attraverso la Resurrezione di Cristo, che non a caso è stata paragonata ad una nuova creazione.
        Cordiali saluti.

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