Perché le chiese moderne sono brutte?

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Le radici ideologiche del più grande crimine nella storia del Cristianesimo occidentale: L’UCCISIONE DELLA BELLEZZA! Il mesto tramonto di una tradizione artistica che aveva riempito il mondo di meraviglie e che affoga oggi nell’insipienza e nella profana ottusità di architetti senza spirito e di committenti ciechi…

 Perché le chiese moderne sono brutte?

 di Ciro Lomonte
Le chiese moderne non persuadono. Visitandole si percepisce la difficoltà dei contemporanei di esprimere il trascendente nelle opere d’arte sacra. I fedeli sono condannati a frequentare chiese che assomigliano spesso a palestre, garage, supermercati, scuole, o addirittura piscine. Forse chi le ha disegnate intendeva riprodurre le situazioni della vita quotidiana nei luoghi demandati all’incontro con la Trinità. Eppure in questi ambienti stranianti non si riesce a instaurare alcun rapporto né con Dio né con gli uomini. A volte si avverte la solitudine come in nessun altro spazio. E pensare che la chiesa, ormai, non è più il luogo dove si prega, ma dove si fa l’assemblea, proprio come avviene nelle aule di culto protestanti.
Si dice che le chiese moderne siano brutte. Al giorno d’oggi un’affermazione del genere rischia di essere priva di senso, persino quando capita che alcuni stilisti decidono di rendere il brutto alla moda nei capi di vestiario. Cos’è mai il bello? Come può attribuire un valore universale all’oggetto della percezione estetica chi professa il relativismo più dogmatico?L’architettura moderna del Novecento ha prodotto opere d’arte anche in questo ambito. Il guaio è che sono un monumento che l’architetto fa a se stesso, come il santuario di Ronchamp, di Le Corbusier, o le chiese di Alvar Aalto. Da questo punto di vista non sono architetture riuscite, perché le si potrebbe utilizzare per altri scopi, operazione che risulterebbe impossibile nel caso della cattedrale di Chartres o di S. Carlino alle Quattro Fontane.
È comprensibile l’insoddisfazione che dette origine più di venticinque anni fa a movimenti come quello dell’”Architettura tradizionale”, una corrente artistica che propugna un ritorno alle forme del passato. Ma il rimedio è peggiore del male, poiché è piuttosto irragionevole riproporre in cemento armato stilemi nati in altre epoche, in altre culture, con altri materiali e differenti soluzioni tecnologiche.
L’Architettura tradizionale, il cui esponente di maggiore spicco è Léon Krier (1), è assai diffusa nei paesi anglosassoni, dove conta molti seguaci fra gli architetti di chiese. Questi ultimi rendono un pessimo servizio a tutta la Chiesa cattolica, oltre che ai loro clienti, appartenenti a gruppi nostalgici del Concilio di Trento. Dimenticano che la modernità secolarizzata è figlia – per quanto degenere – della religione cattolica, l’unica che ha sempre valorizzato pienamente la ragione. È proprio vero, il tradizionalismo è la fede morta dei vivi, la Tradizione autentica è la fede viva dei morti. Il rinnovato dialogo tra fede e arte passa necessariamente attraverso la cura dei focolai d’infezione che hanno condizionato negativamente lo sviluppo della civiltà occidentale.

Alle radici del disagio
Da dove ripartire, allora? Da un lato occorre che gli edifici per il culto siano belli, dall’altro bisogna che assolvano adeguatamente alla funzione per la quale sono progettati. Le due esigenze sono strettamente collegate.
Consideriamo innanzitutto le difficoltà in ambito estetico. Dalla sintassi dell’architettura moderna è stato escluso per principio il decoro, componente indispensabile per progettare le chiese cattoliche. È questa la ragione essenziale per cui le chiese moderne sono spoglie, quasi fossero sottoposte a una furia iconoclasta preventiva. La concezione di Dio dell’architetto, di solito astratta, viene espressa con una magniloquenza dei volumi ingiustificata. Un edificio non è una scultura. Fare irrompere sulla scena urbana una chiesa a forma di barca o di tenda non contribuisce a mettere ordine in un paesaggio caotico né a organizzare l’aula di culto. Il tempio cattolico è affatto diverso dal tempio greco, giacché lo spazio interno è più importante del volume esterno e va studiato con enorme cura.
Alle nude pareti vengono addossate immagini spaesate delle Tre Persone divine, della Madonna e dei santi, che potrebbero essere rimosse o spostate senza modificare l’effetto dell’insieme. Si entra in ambienti anodini, senza sapere dove dirigersi, dato che non c’è un motivo particolare perché il crocifisso o il tabernacolo stiano in un posto anziché in un altro.

La liturgia cattolica ha bisogno dell’ornamento simbolico perché i segni evocano e attualizzano eventi storici. Inoltre la Rivelazione attribuisce un grande valore al corpo e alla materia. L’arte moderna non ha le risorse per esprimere queste verità, fra l’altro perché si rivolge a un’élite di intellettuali e non a una variegata comunità di fedeli comuni. Chi volesse imboccare nuovi percorsi di sviluppo dell’architettura e delle arti figurative dovrebbe entrare nel merito delle ragioni che hanno spinto le avanguardie a rifiutare la rappresentazione del corpo. È questo il problema centrale, non quello delle tecniche, considerato che il programma iconografico dello spazio liturgico si presta a complesse installazioni, molto attuali. Non è indispensabile ricominciare ad affrescare le pareti (tecnica peraltro sconosciuta alla maggior parte degli artisti contemporanei). Si potrebbe tentare per esempio la strada dei video, purché aiuti a descrivere nella sua integrità il mistero cristiano.

Criteri eterodossi
Esaminiamo in secondo luogo le insufficienze funzionali. Progettare una chiesa richiede la comprensione dei luoghi della celebrazione, in particolare la tribuna per la lettura della Parola di Dio e l’ara su cui si rinnova il sacrificio del Calvario. Il progetto dovrebbe partire dall’altare, non dall’involucro. Da questo punto di vista le maggiori responsabilità della inadeguatezza delle chiese moderne ricadono sui committenti.
Nel 1960 ebbe notevole risonanza in Inghilterra e Irlanda la pubblicazione di un libro di Peter Hammond, Liturgy and Architecture. Sebbene scritta da un anglicano, l’opera ebbe una grande influenza sulla progettazione delle chiese cattoliche. L’autore sostiene che la chiesa è la “Casa del popolo di Dio” (domus ecclesiae) piuttosto che un edificio dedicato all’adorazione di Dio (“Casa di Dio” o domus Dei). Non ci sarebbe nulla da eccepire a questa definizione classica, se non fosse che il senso originale viene stravolto: Dio è considerato tanto immanente al suo popolo da sparire del tutto. Ponendo l’accento su un funzionalismo radicale, egli propone uno spazio idoneo a radunare l’assemblea attorno all’altare, enfatizzando l’azione stessa del radunarsi.

Vengono così rigettati il valore centrale dell’Eucaristia e la natura gerarchica della Chiesa, che trae origine dal sacrificio dell’altare. L’edificio per il culto è sì considerato simile agli organismi viventi, ma di tipo elementare, come l’ameba o il paramecio (2). Sarebbero questi i nuovi termini di paragone per disegnare una chiesa, non più il corpo umano, come si vede invece nei trattati di architettura del Rinascimento. Non è affatto banale che i manualisti inseriscano la figura umana, indicata da Vitruvio come «misura di tutte le cose», all’interno della pianta di chiese a croce latina, in un gioco di rimandi simbolici fra le membra vive del Corpo Mistico e le parti dell’organismo architettonico.
La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II è stata attuata da liturgisti e teologi che ne hanno frainteso i principi ecclesiologici. È nota l’interpretazione neomodernista di documenti del Concilio, quali la Sacrosanctum concilium e la Lumen gentium. Va ricordato che quei documenti non parlano soltanto della Chiesa come Popolo nuovo di Dio – Popolo con la P maiuscola, società soprannaturale organizzata dal Fondatore divino, non folla anarchica animata da un dio ignoto –, ma anche come Corpo Mistico di Cristo e Tempio dello Spirito Santo. È a queste definizioni trinitarie che bisogna fare riferimento per progettare i luoghi in cui la Chiesa locale si riunisce per celebrare i sacramenti. Si tratta infatti delle idee centrali a partire dalle quali la Chiesa conosce se stessa e i cristiani conoscono sé stessi come membri della Chiesa. Il venir meno di questa comprensione è uno dei motivi per cui l’architettura per il culto è priva di un “linguaggio sacramentale”.

Quanti liturgisti hanno oggi un senso “sacramentale” della liturgia? Quanti hanno fede nell’efficacia soprannaturale della grazia? Non sarà che per loro il segno ha valore a prescindere dalla realtà significata? La Messa è una partecipazione profonda alle realtà spirituali attraverso una complessa struttura simbolica (le disposizioni della chiesa, i ministeri, i paramenti, le suppellettili, le parole, le preghiere, i movimenti, i gesti). Quanti liturgisti si basano su una comprensione reale della persona umana per definire gli spazi e i momenti della celebrazione? Occorre tener conto del modo in cui l’uomo si rapporta allo spirito attraverso la materia, tramite memoria, immaginazione, percezione estetica, sensi, emozioni e pensieri: tutte le potenze irrorate da una vita di preghiera genuina.

Un fenomeno senza precedenti
Di chiese brutte si può parlare a partire dai primi esperimenti del Movimento liturgico, nato nella prima metà dell’Ottocento nell’abbazia benedettina di Solesmes. Semplice coincidenza?
Qualcuno ha detto che la Chiesa ha interrotto il dialogo con gli artisti da almeno due secoli a questa parte. A ben guardare una simile affermazione non convince, perché il Movimento liturgico provocò sin dall’inizio la ricerca di nuove forme artistiche. Il guaio è che lo fece in nome di un egualitarismo troppo spinto, elaborando una concezione di “spazio universale”, dove tutti i partecipanti e tutti i luoghi dell’azione rituale hanno lo stesso peso, che precede con largo anticipo le riflessioni di Hammond. Il teologo Romano Guardini (1885-1968) ebbe un continuo e fecondo scambio di idee con Rudolf Schwarz (1897-1961), vale a dire con un raffinato architetto e pensatore cattolico. Non era un dilettante di architettura sacra quale si è dimostrato Richard Meier nella “chiesa del Duemila”,  quella di Roma intitolata a Dio Padre misericordioso, costata oltre 15 milioni di euro. Eppure le chiese di Schwarz sono desolanti scatole di cemento, glaciali come la punta di un iceberg che rivela la presenza di un corposo pensiero razionalista (3).

Non era mai avvenuto in passato che l’architettura sacra fosse frutto dell’incontro di liturgisti temerari, le cui legittime aspirazioni per una migliore partecipazione dei fedeli superassero il limite dell’ortodossia, con artisti che non riescono a fare a meno di impiegare linguaggi tipici di un mondo secolarizzato. Fino al XIX secolo si era registrato nell’architettura per il culto un rapporto continuo tra l’evoluzione omogenea del dogma, la fede viva dei costruttori e la loro abilità costruttiva (sviluppata nell’alveo di una cultura realista). E le chiese erano esempi spesso insuperati di bellezza, che hanno resistito alle prove del tempo.
Nella prima fase della diffusione del cristianesimo si passò dalle domus ecclesiae alle chiese siriane (mutuate dal modello della sinagoga) e alle basiliche romane. Vennero perfezionati alcuni tipi molto chiari nella loro partizione (area dei catecumeni, luoghi del battesimo, della parola, dell’eucaristia, cattedra,…) e idonei al dinamismo dell’azione liturgica. Sembra che i fedeli si muovessero molto durante la celebrazione: uomini e donne entravano da porte differenti, si disponevano attorno agli amboni, poi si spostavano verso l’altare, si giravano a oriente durante la consacrazione, ecc.

Alla vivacità della liturgia corrispondeva una grande libertà creativa, maggiore di quanto non sia dato comprendere a chi visita oggi i monumenti paleocristiani o bizantini, manomessi dall’uso più recente o dai restauri. Ripristinare una ipotetica sistemazione originaria è molto difficile nelle chiese antiche, perché gli adeguamenti liturgici apportati nei secoli sono stati a volte brutali. Sono state disperse parti di amboni dal sottile valore simbolico (l’ambone non era un semplice leggio, era il sepolcro vuoto dal quale veniva dato l’annuncio della Risurrezione). Più di recente sono stati smembrati altari del Santissimo Sacramento di splendida fattura artigianale.
I primi cristiani avevano una profonda consapevolezza della chiamata universale alla santità, che si è affievolita con la grande evangelizzazione di massa dei barbari. La loro fedeltà al messaggio evangelico costituiva il solido fondamento della libertà di spirito con cui modellavano lo spazio fisico, impiegavano le arti figurative, componevano la musica, ecc.
La liturgia mantenne la spinta creativa anche nei secoli del romanico e del gotico. Fintantoché la Chiesa non ebbe il problema di affrontare i gravi errori dottrinali dei protestanti, la varietà di espressioni dell’azione liturgica fu molto ampia. Soltanto dopo il Concilio di Trento la celebrazione venne costretta entro forme molto rigide, giustificate dalla necessità pastorale di difendere la retta dottrina. Era necessario, in particolare, sottolineare la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Borromeo imbrigliò con prescrizioni minuziose la ricerca di soluzioni nuove che permettessero di considerare ancora la liturgia una sorta di opera d’arte totale (4).

Chiese “drive in”
L’introduzione graduale dei banchi (le cui origini remote risalgono all’autunno del Medioevo) aveva ridotto nel frattempo la possibilità di movimento dei fedeli durante la celebrazione.
«Storicamente il banco appare piuttosto tardi […]. Prima di allora i laici stavano in piedi o in ginocchio secondo le prescrizioni, dato che non c’erano posti a sedere. Fino a quell’epoca, è interessante notare, uomini e donne erano spesso separati durante i riti. Nell’Oriente cristiano le donne a volte stavano in piedi in una galleria superiore della navata detta gynaikon. […] Per i medievali, che immaginavano l’Inferno ad ovest e ritenevano il nord la terra del paganesimo, questa sistemazione conferiva alle donne della comunità il compito di proteggere i meno santi e meno forti dalla tentazione più grande! Come si vede nelle Istruzioni di san Carlo Borromeo, questa distribuzione era ancora rinvenibile nel XVI secolo. […]  A partire dal XIII secolo alcune chiese furono dotate di panche senza schienale. I banchi veri e propri furono adottati per primi dai protestanti, per consentire di rimanere seduti durante sermoni che duravano ore. In modo simile essi divennero più comuni tra i cattolici allorché la Controriforma attribuì una grande importanza liturgica alla proclamazione della Parola. Verso il tardo XVI secolo le panche divennero più grandi e fisse, con inginocchiatoi e alti schienali, e spesso con pannelli scolpiti finemente.

«Nei recenti adeguamenti delle chiese spesso sono stati rimossi i banchi per sostituirli con sedie monoposto non fisse. Ciò comporta sia vantaggi che inconvenienti. I posti mobili hanno l’indubbio pregio di rompere la staticità della navata e di offrire un’immagine più organica dell’assemblea. Sebbene le sedie esprimano meglio il ruolo della singola persona nella comunità, esse hanno anche un effetto meno familiare dei banchi. Forse la giustificazione più banale è che esse permettono pure facilmente di cambiare la sistemazione delle chiese: un simbolismo piuttosto dubbio, dato che le chiese dovrebbero parlare dell’eterno piuttosto che dell’effimero. L’altro difetto delle sedie è che i posti individuali possono ricordarci i posti a sedere dei teatri. Possono suggerire una relazione da spettatore e quindi non incoraggiare la vera partecipazione. […] È spiacevole che la rimozione dei banchi in molte chiese, specialmente in America, abbia comportato l’eliminazione degli inginocchiatoi e anche della pratica dell’inginocchiarsi» (5).
Il Concilio Vaticano II ha promosso in vari modi la partecipazione piena, consapevole, devota e attiva dei fedeli. Eppure essi si sono notevolmente impigriti, tant’è che frequentano più numerosi le parrocchie in cui sono previste maggiori comodità per attirarli. Si ha l’impressione che converrebbe progettare chiese “drive in”, dove si possa entrare in automobile.

Alcuni sacerdoti rischiano di mettere tra parentesi il ruolo di maestra della Chiesa per inseguire le mode del momento, coltivando l’illusione di attrarre e coinvolgere i fedeli. Ne sono esempi sia la consuetudine inappropriata di cambiare o abbreviare a proprio piacere i testi liturgici, sia quella di introdurre nella celebrazione canzoni ispirate a tradizioni musicali poco consone a elevare lo spirito.
La riforma liturgica è nata dal desiderio di porre l’Eucaristia al centro e al culmine della vita di tutti i cristiani, laici compresi. Essa però è stata interpretata scorrettamente come un invito a trasformare i riti in uno “spettacolo” di matrice protestante, senza un reale coinvolgimento dei fedeli, se non negli aspetti più superficiali. La celebrazione dei sacramenti è divenuta una forma di intrattenimento, con appelli a sensi ed emozioni e addirittura con applausi (il chiasso melenso provocato da alcuni sacerdoti è un silenzio tombale per le orecchie degli architetti: essendo ingiustificato, non offre alcuna indicazione utile al progetto). Il sacerdote è diventato l’attore pressoché solitario di una recita all’interno di un teatro molto statico, in cui gli spettatori sono bloccati ai loro posti con gli occhi fissi su di lui.
Le difficoltà non sono superate neanche dalla distribuzione “avvolgente” dei posti a sedere, tanto cara ad alcuni liturgisti, che del resto non è neppure rispettosa del modello dell’Ultima cena nel cenacolo. Sembra quasi che la riforma liturgica si sia arenata prima del guado, senza raggiungere le mete nevralgiche della participatio actuosa dei fedeli. Non è certo facendo leggere un laico o intonare qualche altro che si ottiene questo risultato.

Progettare con la luce
Uno dei materiali essenziali per la composizione architettonica è l’energia luminosa. Nel caso delle chiese essa possiede una precisa carica simbolica. Lo spiegava liricamente Giovanni Paolo II un po’ di tempo fa: «È un’irradiazione del suo mistero trascendente ma che si comunica all’umanità: la luce, infatti, è fuori di noi, non la possiamo afferrare o fermare; eppure essa ci avvolge, illumina e riscalda. Così è Dio, lontano e vicino, inafferrabile eppure accanto a noi, anzi pronto ad essere con noi e in noi. Allo svelarsi della sua maestà risponde dalla terra un coro di lode: è la risposta cosmica, una sorta di preghiera a cui l’uomo dà voce.
«La tradizione cristiana ha vissuto questa esperienza interiore non soltanto all’interno della spiritualità personale, ma anche in ardite creazioni artistiche. Tralasciando le maestose cattedrali del medioevo, menzioniamo soprattutto l’arte dell’oriente cristiano con le sue mirabili icone e con le geniali architetture delle sue chiese e dei suoi monasteri.

La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli rimane a questo proposito come una sorta di archetipo per quanto concerne la delimitazione dello spazio della preghiera cristiana, in cui la presenza e l’inafferrabilità della luce permettono di avvertire sia l’intimità sia la trascendenza della realtà divina. Essa penetra l’intera comunità orante fin nel midollo delle ossa e insieme l’invita a superare se stessa per immergersi tutta nell’ineffabilità del mistero. Altrettanto significative le proposte artistiche e spirituali, che caratterizzano i monasteri di quella tradizione cristiana. In quei veri e propri spazi sacri – e il pensiero vola immediatamente al Monte Athos – il tempo contiene in sé un segno dell’eternità. Il mistero di Dio si manifesta e si nasconde in quegli spazi attraverso la preghiera continua dei monaci e degli eremiti da sempre ritenuti simili agli angeli» (6).

Quando vennero diffuse queste parole del Papa, alcuni architetti reagirono con arroganza indispettita, asserendo che nessuno meglio dei progettisti odierni è mai stato capace nella storia di modellare lo spazio con la luce. Sarà vero? Dal Crystal Palace di Londra (7) al progetto del grattacielo che sostituirà le Twin Towers, c’è stata una corsa ininterrotta all’edificio più trasparente. Il rapporto tra queste enormi superfici vetrate e il conseguente spreco di energia suscita più di una perplessità, senza contare l’indifferenza al contesto di queste architetture. In ogni caso non è eliminando il confine tra interno ed esterno che si ottiene una buona chiesa.
Con buona pace degli strenui difensori della superiorità dell’architettura contemporanea, bisogna ammettere che gli architetti bizantini seppero servire la liturgia più adeguatamente di chiunque altro, e con sorprendente audacia, tant’è che la prima cupola di Santa Sofia crollò e fu necessario ricostruirla con maggiore attenzione.

Una sfida per gli architetti
In Italia la Chiesa cattolica è rimasta l’unica committenza che abbia fiducia e interesse per il lavoro degli architetti. Non esistono una classe politica, una dirigenza o un ceto di mecenati che vogliano la qualità. Esistono casi isolati di incarichi che dimostrano il desiderio di apparire e un discreto complesso di inferiorità nei confronti dei progettisti di grido, ma sono eccezioni che non aiutano a uscire dal vicolo cieco.
La progettazione dello spazio sacro costituisce una sfida intrigante non solo per gli architetti, ma anche per artisti, artigiani e liturgisti. Paradossalmente le risorse finanziarie ci sono, quelle che mancano sono le idee. Per trovare la strada giusta servono anche i contributi dei filosofi, degli storici, degli archeologi, dei teologi. Perché non dare vita a un ampio dibattito su questo tema? Magari, mettendo da parte una buona volta i luoghi comuni triti e ritriti sull’argomento e le ipotesi ermeneutiche prive di fondamento.

Uno degli equivoci più diffusi è l’obbligo morale di ruotare l’altare verso i fedeli. «Il Liber Pontificalis ci dice che, due secoli dopo Gregorio, il papa Pasquale I, a Santa Maria Maggiore, aveva sempre il suo seggio in mezzo alla navata, avendo in tal modo gli uomini davanti a sé e le donne dietro, mentre l’altare restava in fondo. Anche in questo caso, ciò che gli fece spostare il trono pontificale per trasferirlo nell’abside fu, ci vien detto, il suo disappunto nel sentire le donne far commenti su ciò che egli diceva ai suoi diaconi. Tutti questi fatti – e sono questi i fatti che noi abbiamo circa l’origine dell’altare “rivolto al popolo” – mostrano che la disposizione resa celebre da S. Pietro a Roma, e dalla maggior parte delle altre basiliche romane che ne hanno seguito l’esempio, risale indubbiamente a un’epoca molto antica e si avvale di una lunga pratica da parte dei papi. Ma mostrano altrettanto chiaramente che vi si è arrivati attraverso tutta una serie di evoluzioni che corrispondono ben poco a ciò che tanti amano immaginare al giorno d’oggi. Quel che è più importante è che l’origine dell’altare “rivolto al popolo” ha poco o nulla a che vedere con il senso che gli si è attribuito nei tempi moderni.
«Lungi dall’essere primitivo, l’uso di un altare “rivolto al popolo” è anzitutto il risultato relativamente recente (non è anteriore al VI secolo) di un’evoluzione piuttosto complessa. Tutto ciò che noi sappiamo della celebrazione primitiva o della celebrazione che si è strutturata in epoca costantiniana indica un altare situato o in fondo all’edificio o in mezzo alla navata. Nel primo caso, nessuno poteva trovarsi di fronte al celebrante. Nel secondo caso, solo una parte dei presenti si trovava di fronte a lui, e pare che fosse composta unicamente dalle donne.

«L’idea che una celebrazione di fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva, e in particolare quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto nell’antichità, cristiano o no che fosse. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma, oppure di una tavola che aveva all’incirca la forma di un ferro di cavallo. Da nessuna parte dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. […] Bisogna aggiungere inoltre che la descrizione del tardo altare romano come di un altare “rivolto al popolo” è puramente moderna. L’espressione non è mai stata usata nell’antichità cristiana. È sconosciuta anche al medioevo» (8).
Stat Crux dum volvitur orbis. La Messa è una celebrazione dinamica per essenza. Essa rinnova e ripropone il sacrificio del Calvario, riassumendo tutto il prima e il poi della storia dell’umanità. Il Redentore rimane inchiodato sulla croce fino alla fine del mondo, offrendo un sostegno misterioso a ogni essere umano che naufraga nel vortice di una vita all’apparenza senza senso. Occorre rappresentare nelle chiese il ruotare del cosmo e della storia attorno al loro asse effettivo, fino a quando esso si manifesterà diafano nella Gerusalemme celeste. L’architettura deve favorire questo movimento, risultato che non si ottiene con la superficiale disposizione delle sedie attorno all’altare, anche perché i luoghi della celebrazione sono molteplici. A tal uopo può essere utile ricuperare il rapporto fisico con il punto cardinale da cui sorge il sole.

«Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, J. A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro» (9).


Note:

1 Cfr. Léon Krier, Architettura. Scelta o fatalità, Laterza, Bari 1995. Il progettista lussemburghese, più che alla diffusione dello stile classicista che lo rese famoso negli anni Ottanta, oggi è interessato alla promozione di una progettazione urbanistica – New Urbanism – attenta agli elementi intramontabili della vita sociale.
2 Peter Hammond, Liturgy and architecture, Barrie and Rockliff, London 1960, pp.11, 28 e 38.
3 Rudolf Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999. Il modello progettuale del “duomo di tutti i tempi”, proposto nel libro, si fonda su una cristologia alquanto dubbia.
4 Caroli Borromei, Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesiasticæ libri II (1577).
5 Steven J. Schloeder, Architecture in Communion. Implementing the Second Vatican Council through Liturgy and Architecture, Ignatius Press, San Francisco 1998, pp.134-135.
6 Giovanni Paolo II, Udienza del 15 maggio 2002, commento ad Abacuc 3,2-3.18-19.
7 «Il Crystal Palace del 1850-51, che ospitò la Great Exhibition, fu progettato da Joseph Paxton, ingegnere/orticultore, il quale effettivamente trasferì la serra da un contesto a un altro. Quest’ampio capannone vetrato fu interamente assemblato con elementi standardizzati di ferro, legno e vetro, e fu progettato per esporre gli oggetti e i prodotti delle potenze economiche concorrenti, ma si innalzò al di sopra di questi interessi mondani, dissolvendosi negli alberi e nel cielo e rivelando un senso di spazio, trasparenza e leggerezza, senza precedenti». William J. Curtis, L’architettura moderna del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999, p.36.
8 Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Edizioni Qiqajon, Magnano 1994, pp.37-38.
9 Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p.76.

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3 commenti

  1. paris domenico on

    LE CHIESE MODERNE SONO BRUTTE
    Il giudizio unisce semplici fedeli, critici d’arte, intellettuali laici fino ad arrivare a Mons. Gianfranco Ravasi che dichiara: ”Oggi le chiese sono come un garage dove Dio viene parcheggiato”
    di Ebe Gianotti

    Che le chiese moderne siano brutte non è un luogo comune qualunquista. Il giudizio unisce per una volta semplici fedeli, critici d’arte, intellettuali laici fino ad arrivare a monsignor Gianfranco Ravasi, in pratica il ministro della cultura e dei beni culturali del Vaticano, che su questo argomento ha voluto citare padre Turoldo, «oggi le chiese sono come un garage dove Dio viene parcheggiato e i fedeli sono tutti allineati davanti a lui».
    Eppure parecchie delle chiese nuove sono affidate agli architetti contemporanei più quotati, e il problema non può neanche risiedere nella convinzione religiosa o meno dei progettisti se uno degli ultimi esempi negativi è la chiesa di S. Paolo a Foligno, opera di un Massimiliano Fuksas neoconvertito per merito di Benedetto XVI, come ha dichiarato in un’intervista. In questo caso specifico, ci troviamo di fronte a un oggetto che in nessun modo rivela qualche parentela con la lunga tradizione delle chiese cristiane. Un enorme monolite in cemento, costituito da due parallelepipedi inseriti uno nell’altro e collegati da elementi a forma di tronco di piramide, muto, al contrario delle vere architetture che cantano, come diceva Enzo Paci.
    Proprio questi elementi – il tipo di composizione astratta, la semplicità frutto della trasposizione schematica di moduli geometrici e non del difficile processo che, nell’apparente semplicità formale, condensa complessità e articolazione – rivelano la loro discendenza dagli indifferenziati templi di una metafisica come era pensata dagli architetti rivoluzionari illuministi, nella Francia del 1700.
    Si comincia con Blondel e la facciata di chiesa conventuale simile a un monumento funebre, in cui è un obelisco a sostenere la croce, si prosegue con il suo allievo più celebre, Boullèe i cui cenotafi sono il riferimento obbligato per ogni architetto che si accinga a costruire nuove chiese e i cui disegni di chiese metropolitane (nessuna dedica ai santi, alla Madonna, a Cristo, sono scomparsi tutti) paiono il modello del campidoglio di Washington o dell’Opèra di Parigi. Si arriva poi a Lequeu che conclude la parabola, dopo templi del Silenzio e di Iside o santuari persiani, con il Tempio al Dio ignoto.
    E a un dio ignoto sembrano di fatto appartenere le chiese moderne.
    Architetture algide, fredde e spoglie quelle proposte dagli architetti francesi, così come le contemporanee, nate dal gesto del progettista, fortemente demiurgico allora e un po’ più glamour oggi, che interrompe il legame storico con il popolo che sta dietro alla costruzione di ogni chiesa.
    Gli ambienti nudi, la scarsa varietà dei materiali impiegati, l’intervento minimo dell’iconografia e, come conseguenza, l’assenza quasi totale di artisti e artigiani qualificati, ci ricordano come, al contrario, il legame del popolo nell’edificazione della Casa di Dio per secoli si fosse manifestato in modo molto concreto. Nel lavoro di artigiani, muratori, scalpellini, decoratori, stuccatori che si davano il cambio generazione dopo generazione in quei cantieri infiniti che erano le cattedrali e nelle quali si racchiudeva il meglio della capacità di “fare” tipica dell’uomo.
    Quella particolare modalità che Pavel A. Florenskij definiva con queste parole: una costituzione di spirito del tutto particolare: abitudini ed esperienza ricevute in eredità e formate nel corso dei secoli… Probabilmente il tipo più sano di processo creativo, che scorre sempre entro argini ben precisi, senza sofferenze, senza ansie, senza romanticismo, senza lacrime e senza estasi, con una tranquilla sicurezza nella propria mano, che sa già da sé cosa deve fare… questa maestria è lontanissima dallo spirito del nostro tempo, dove tutto è basato sulla sincerità lancinante e sullo sconcerto, oppure sul desiderio di produrre qualcosa di diverso da ciò che è già stato fatto da altri, di vedere, stupire, colpire, e sul terrore di poter andare a finire casualmente su una strada già percorsa da qualche altro.
    Oggi nessuno entra in una chiesa moderna per ammirare un affresco, un altare, un bassorilievo, per vivere la bellezza dello spazio interno e della luce che filtra attraverso le vetrate, eppure l’esperienza del bello è una di quelle che con più forza avvicina l’uomo a Dio, come la Chiesa ha sempre saputo.
    Ma a scorrere le pagine del catalogo della mostra internazionale di Architettura per lo spazio sacro, tenuta a Bologna nel 1996 con il patrocinio della Cei, viene il dubbio che forse non lo sappia più e che le colpe non siano da addebitare solo agli architetti per i loro progetti, ma anche alla committenza religiosa che li approva.
    È difficile dalle piante capire che si tratta di edifici per il culto, scordiamoci navate, transetti, absidi, cappelle laterali, cripte, prevale la pianta centrale, modificata e deformata in tutte le possibili accezioni:ellissi, prismi, triangoli, cerchi, quadrati.
    E quando il modello è la pianta rettangolare, non è assimilabile a nient’altro altro che a un’aula (di tribunale, di mensa aziendale, per conferenze, per rappresentazioni teatrali?). Quasi assenti i campanili, la verticalità è modesta o nulla e se proprio la si vuole sottolineare spesso non si trova altra soluzione che la forma stilizzata del pino natalizio, con falde inclinate fino a terra, alla maniera di un’ipotetica baita che non esiste neppure in montagna.
    Anche le recenti pubblicazioni degli esiti dei concorsi promossi dalla Cei per le nuove chiese italiane, parlo del 2010, non propongono esempi incoraggianti.
    Eppure ogni progettista era supportato da un sacerdote liturgista, proprio per evitare ridicole invenzioni soggettive da parte dell’architetto. E a leggere le relazioni di presentazione dei progetti vincitori, o comunque dei secondi e terzi classificati, prima ancora di esaminare le tavole e i rendering, spesso non si può che essere d’accordo con le intenzioni. Ma è come se poi alle parole non corrispondessero le azioni e si producesse uno scollamento insanabile tra i due termini.
    Per cui ci ritroviamo di nuovo con chiese che sembrano crematori (S. Giorgio Martire, Dresano), chiese afasiche, dove l’esposizione del crocifisso è l’unica concessione all’iconografia cristiana. Scomparsa ogni traccia di racconto biblico, vuoi pittorico, vuoi scultoreo, rimangono spazi minimalisti e mortiferi, oppure forme “organiche”, che siccome siamo vicini al mare (S. Giovanni Battista, Porto Recanati) si ispirano alle onde, oppure addirittura chiese attente a ridurre al minimo il fabbisogno energetico in modo da poter classificare l’edificio in Classe energetica A (!).
    O ancora progetti di chiese “accartocciate” (Madonna del Carmelo, Racalmuto), ispirate ai lavori di Frank Gehry, che se arriva un terremoto a distruggerle nessuno se ne accorge.
    Insomma, anche con il liturgista che fiata sul collo, sembra che non si sappia dove sbattere la testa.

  2. Sergio Levorin on

    Possiate supportare la mia volontà di sviluppare la definizione progettuale relativa all’architettura ideata/abbozzata stimolato dalla volontà di esprimere la gratitudine proponendo la mia testimonianza, la Deduzione Celeste ricavata riabilitandomi tradotta nel linguaggio caratteristico, la ChiesAuovo (cfr. Facebook)
    Da anni nutro la volontà di esprimere la gratitudine proponendo la Deduzione Celeste ricavata affrontando L’IMPEGNATIVO PERCORSO RIABILITATIVO che mi impegna proficuissimamente a partire da metà 2004 circa. Chiedo di poterlo fare da voi supportato, possiate condividere la definizione progettuale dell’architettura ideata per far brillare la Verità e stimolare chiunque ad accogliere la mia testimonianza, ad interpretare la propria vicenda di vita considerando che la stessa non è fine a se medesima ma corrispondente alla gestazione dell’eternità ultraterrena che verrà interpretata da chiunque in saecula saeculorum.
    Interpretando il presdente chiedo a Dio che possiate rispondere proficuissimamente alla volontà di esprimere la gratitudine proponendo la mia testimonianza tradotta nel linguaggio dell’architettura immaginata ad hoc, architettura che corrisponde a quella che dovrebbe essere diffusa a livello interazionale da due millenni per stimolare la coscienza di vita dei fratelli tutti.
    Arch. Levorin Sergio, giovane architetto testimone della Verita proposta dalla fede cattolica residente a Chivasso (TO), disponibile IA telefono (3470516402) e via mail (archi_sign@libero.it).
    Sia fatta la volontà di Dio.

  3. Bellezza della Verità tradotta nel linguaggio dell’architettura
    Annoto la presente con la volontà di mettere in luce la ma imperitura volontà di evolvere la progettualità relativa all’architettura ideata con la volontà di esprimere la gratitudine e veicolare la mia testimonianza, la ChiesAuovo (cfr. Facebook)
    Proponendo la stessa stimolerei il prossimo qualsivoglia, ora e sempre, ad accogliere la percezione ricavata interpretando il miracolo che corrisponde alla mia esperienza di vita ed offrirei l’opportunità di a beneficiare della deduzione ricavata interpretando il medesimo.
    Elaborando la definizione progettuale rispettiva desidero impreziosire l’esperienza di vita comune a noi tutti, stimolando l’intera umanità ad instradare il proprio vivere in modo conforme alla deduzione Celeste ricavata riabilitandomi, assolutamente coerente con quanto propone la fede cattolica dall’inizio dei tempi, secondo la quale la vicenda di vita interpretata da ognuno nel presente fisico non è fine a se stessa ma corrisponde alla gestazione di una vita ulteriore, la vita ultraterrena imperitura, esperienza di vita che verrà interpretata da ognuno di noi in condizioni non più fisiche corrispondenti all’eternità ultraterrena.
    Ritengo che chiunque, confrontandosi o anche solo venendo a conoscenza dell’architettura immaginata per significare quanto riconosciuto affrontando il percorso riabilitativo indicato potrebbe ricavare l’opportunità di accogliere la mia percezione ricavata ed a ricavare l’opportunità di vivere coscientemente, considerando la Verità secondo la quale la vita interpretata nel presente fisico non è fine a se stessa ma corrisponde alla possibilità di dare forma alla vita ultraterrena imperitura.
    Propongo a voi tutti di accogliere la percezione ricavata ed ad improntare il vostro vivere in modo conforme a quanto riconosciuto affrontando l’IMPEGNATIVO PERCORSO RIABILITATIVO che corrisponde al mio vivere a partire da metà 2004 circa (16/6/2004 giorno che data il risveglio dalle condizioni comatose potenzialmente irreversibili dovute al trauma subito sull’asfalto 53 giorni prima, il 24/4/2004)
    Offrendovi il presente testimone vi propongo di interpretare la vostra esperienza di vita considerando quanto più possibile quanto riconosciuto interpretando il miracolo che corrisponde alla mia e la mia volontà di esprimere la gratitudine stimolando chiunque a beneficiare della stessa.
    Propongo di confrontarvi con la pagina Facebook annotata (https://www.facebook.com/groups/324057398215864, https://www.facebook.com/sergio.levorin.12)
    Arch. Levorin sergio, residente a Chivasso (TO), C.F.: LVRSRG78P15C665N, TEL.3470516402

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