Il mistero della Virgèn de Guadalupe: simbolismo, storia e prodigi della “Signora del Messico”

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La Vergine, il Serpente piumato e il mantello. Simboli e misteri a Guadalupe

Il 12 di Dicembre è la ricorrenza dell’Apparizione della Virgen de Guadalupe all’indio azteco Juan Diego: una vicenda che, al di là dell’aspetto devozionale, sembra offrire non solo sorprendenti conferme scientifiche, ma mette in luce soprattutto un’enigmatica vicenda intessuta di simboli, presagi, profezie e segni che sembrerebbe uscita da un racconto mitico. Con sullo sfondo, l’incontro-scontro fecondo ma spietato tra il mondo europeo dei conquistadores e l’arcaico universo simbolico degli Aztechi.

La vicenda che stiamo per raccontare potrebbe sembrare la trama di uno di quei romanzi “misteriosi” oggi così alla moda: si narra infatti del mitico sovrano di un leggendario regno posto nell’incerto “tempo del mito”, di un “dio” enigmatico, di una profezia apparentemente realizzatasi, di un’apparizione e di un segno miracoloso concretissimo che ancora oggi sembrerebbe concedersi ai nostri occhi –in barba ad ogni secolarismo e scetticismo- e di nomi di luoghi, di persone e di “divinità” che, già di per se, sembrerebbero nascondere misteriosi presagi.
L’unica differenza tra questa vicenda e quelle romanzate in certi libri e che qui non siamo nel mezzo di una trama inventata, ma in una storia vera: una vicenda misteriosa fatta di segni e di simboli che sfidano la nostra intelligenza e anche, in quanto cristiani, la fede che affermiamo di confessare; una vicenda che, al tempo stesso, si sposa indissolubilmente con la storia cosiddetta “ufficiale”, quella narrata sui libri di scuola e di cui gli studiosi credono spesso di conoscere così bene cause e dinamiche.

 Tra leggende nere e attese messianiche

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Tenochtitlàn, la capitale degli Aztechi, come doveva apparire agli occhi dei Conquistadores di Hernan Cortèz Murales di Diego de Rivera.

Lo scenario della vicenda è quello della Conquista e dell’Evangelizzazione delle Americhe, e in particolar modo di quel centro culturale e spirituale del Nuovo Mondo che fu, per secoli, il Messico.
La Conquista del Messico da parte degli spagnoli è uno di quegli eventi che ancora oggi suscitano opinioni violentemente discordi: da una parte, infatti, a iniziare da quella “Leggenda Nera” anticattolica nata nell’Inghilterra protestante[1] e ripresa dall’Illuminismo, si afferma che l’impresa sarebbe stata, essenzialmente, un infame massacro; dall’altra, una certa apologetica cattolica di stampo tradizionalista presenta questo evento come un’avventura gloriosa, una liberazione degli stessi indigeni dal giogo dell’idolatria e dalla pratica terrificante dei sacrifici umani, praticati su larghissima scala soprattutto dagli Aztechi. Queste posizioni unilaterali, tuttavia, oltre a non rendere giustizia alla verità storica, non sembrano poter cogliere, nella loro prospettiva polemica e un po’ banale, quell’aspetto realmente “misterioso”, nel senso proprio e originario del termine- che la vicenda sembra possedere.

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Cortez. A capo dei Conquistatori spagnoli.

La Conquista di quello che è oggi il Messico ha inizio nell’anno 1519 –nello stesso periodo in cui, dall’altra parte dell’oceano, un oscuro monaco tedesco di nome Màrtin Luther stava gettando le basi per la più drammatica divisione che il mondo cristiano abbia mai conosciuto. I conquistadores, qualche centinaio di avventurieri partiti dalla Spagna e dalla vicina Cuba, erano guidati da un hidalgo di nome Hernan Cortez: uomo animato da un profondo spirito cavalleresco e da un coraggio contagioso, ma anche, all’occorrenza, cinico e spietato quanto basta per imbarcarsi in un’avventura all’apparenza folle.
All’incredibile successo di Cortez e dei suoi –che in tre anni conquistarono un impero azteco che contava più di 8 milioni di abitanti- contribuirono naturalmente vari fattori: oltre alla superiorità tecnologica data dalle armi d’acciaio e dai cannoni, è dimostrato che numerose popolazioni indie preferirono schierarsi con gli Spagnoli, piuttosto che rimanere sotto il potere degli Aztechi, che utilizzavano i popoli sottoposti come “terreno di caccia” per gli innumerevoli sacrifici umani richiesti dalle loro sanguinarie divinità[2]. Ma c’è dell’altro. I cronisti dell’epoca, infatti, testimoniano come il mondo messicano alla vigilia della Conquista fosse attraversato da un’attesa che potremmo definire “messianica”: un’attesa in buona parte collegata alla profezia del ritorno del re-dio Ce Acatl Quetzalcoatl.

Ma chi era Quetzalcoatl?

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Simbolo di Quetzalcoatl, il re dio dell’antico Messico che aveva vietato i sacrifici umani e che aveva promesso di ritornare

Nella mitologia azteca e mesoamericana, Quetzalcoatl è una figura divina di importanza fondamentale: il suo nome, che può essere tradotto come Serpente Piumato[3], indica il concetto di unione fra cielo e terra, fra spirito e materia, fra umano e divino. Unica divinità del pantheon pre-ispanico a non richiedere sacrifici umani, era ricordato dagli indigeni per aver donato agli uomini il calendario e la coltivazione del mais. Una delle leggende sulla sua nascita, racconta di come la dea Coatlicue[4], personificazione della natura madre e dell’aspetto femminile della Divinità, abbia concepito verginalmente il dio grazie ad un frammento di giada che l’avrebbe ingravidata.
Il mito di Quetzalcoatl, peraltro, si confonde –spesso fino a sovrapporsi- con quello di un personaggio semi-storico che porta lo stesso nome: il 10° re dei Toltechi[5], Ce Acatl Quetzalcoatl, che sarebbe vissuto verso il X secolo della nostra era (Ce Acatl, ossia “1 canna” era l’anno di nascita del re, secondo il calendario preispanico). L’antico sovrano era ricordato dagli Aztechi come il protagonista di una vera e propria età dell’oro: mecenate delle arti, benefattore del suo popolo, riformatore religioso (avrebbe abolito i sacrifici umani, sostituendoli con offerte di tortillas di mais), curiosamente descritto in alcune tradizioni come “chiaro di pelle”[6], Ce Acatl sarebbe caduto in disgrazia agli occhi della casta sacerdotale conservatrice (rappresentata nel mito dal dio infero Tezcatlipoca, Specchio Fumante), che lo avrebbe costretto ad abbandonare il trono. Accusato di aver sedotto una sacerdotessa, Quetzalcoatl sarebbe fuggito e, secondo alcune versioni della leggenda, si sarebbe imbarcato sulle sponde del Golfo del Messico vicino all’attuale Veracruz, promettendo però di tornare proprio nell’anno Ce Acatl corrispondente a quello della sua nascita. Ora, essendo il calendario azteco costituito da cicli di 52 anni, l’anno Ce Acatl finiva per ricadere ad ogni inizio ciclo: così, ad esempio, la fatidica data poteva cadere nell’anno 1414, nel 1467, ma …anche nel 1519!

 La realizzazione delle attese? Non proprio…

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Il frate Toribio. Aveva provato a fare “inculturazione” ma senza grandi risultati.

Proprio in quest’ultima data, su quella stessa costa del Golfo da cui il mitico re sarebbe partito, giunsero gli Spagnoli di Cortez: strani esseri dalla “pelle chiara” come il re-dio, portatori di una fede nuova, che gli Aztechi non poterono non scambiare, almeno inizialmente, per il loro sovrano ritornato dall’oceano orientale… D’altronde, furono gli stessi messicani, incerti sull’identità dei nuovi arrivati da loro chiamati teules[7], a riempiere di doni preziosi e a condurre i futuri dominatori fin dentro la loro capitale, la favolosa Tenochtitlan[8]. La coincidenza tra questa profezia e la data dell’arrivo di Cortez, d’altro canto, colpì profondamente non solo gli Aztechi, ma gli stessi conquistatori spagnoli, che la interpretarono da subito come un “segno provvidenziale”. Questa è però solo una delle enigmatiche coincidenze di questa “storia nascosta” eppure reale che stiamo raccontando.

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Juan Diego, l’indio azteco da poco battezzato, raffigurato al momento dell’apparizione sul monte Tepeyac.

Gli Aztechi non ci misero molto a capire che i nuovi arrivati non erano divinità venute a riportare l’età dell’oro: la Conquista, in effetti, fu contraddistinta da episodi brutali, a cui fece seguito un periodo ancor più drammatico, in cui l’universo indigeno entrò in una crisi terribile, non solo a causa del metodo di governo dei nuovi padroni o delle malattie importate dall’Europa, ma soprattutto come conseguenza del crollo di un’intera visione del mondo. Un intero popolo, infatti, aveva perso, con la sconfitta, anche il senso della sua esistenza in questo mondo, senza aver avuto il tempo e il modo di acquisire i modelli culturali dei colonizzatori; e le conseguenze, come testimoniano i documenti dell’epoca, furono drammatiche oltre l’immaginabile[9]. Le stesse conversioni al Cristianesimo, nei primi anni, furono pochissime, nonostante la presenza in Messico di uomini di grande carità e di nobile apertura mentale come il frate francescano Toribio de Benavente: uno dei primi europei a rivolgersi con inedito rispetto a ciò che c’era di valido nella cultura dei popoli indios; proponendo, tra l’altro, una (forse) ingenua ma significativa identificazione tra Ce Acatl Quetzalcoatl, il “re dalla pelle chiara” nemico dei sacrifici umani, e la figura dell’apostolo missionario San Tommaso.

Juan Diego, l’Aquila parlante

L'immagine nella pupilla della Virgen. La presenza di queste immagini negli occhi è, innanzi tutto, la conferma definitiva dell'origine prodigiosa dell'icona guadalupana: è materialmente impossibile dipingere tutte queste figure in cerchietti di circa 8 millimetri di diametro, quali sono le iridi della Madonna di Guadalupe, e per di più nell'assoluto rispetto di leggi ottiche totalmente ignote nel secolo XVI. Inoltre, la scena del vescovado come appare negli occhi della Vergine pone un altro problema: essa non è quella che poteva essere vista dalla supeficie della tilma, dato che vi compare Juan Diego con la tilma dispiegata davanti al vescovo. A questo proposito José Aste Tonsmann avanza l'ipotesi che la Madonna fosse presente, sebbene invisibile, al fatto, e abbia "proiettata" sulla tilma la propria immagine, avente negli occhi il riflesso di ciò che stava vedendo.
L’immagine nella pupilla della Virgen.
La presenza di queste immagini negli occhi è, innanzi tutto, la conferma definitiva dell’origine prodigiosa dell’icona guadalupana: è materialmente impossibile dipingere tutte queste figure in cerchietti di circa 8 millimetri di diametro, quali sono le iridi della Madonna di Guadalupe, e per di più nell’assoluto rispetto di leggi ottiche totalmente ignote nel secolo XVI. Inoltre, la scena del vescovado come appare negli occhi della Vergine pone un altro problema: essa non è quella che poteva essere vista dalla supeficie della tilma, dato che vi compare Juan Diego con la tilma dispiegata davanti al vescovo. A questo proposito José Aste Tonsmann avanza l’ipotesi che la Madonna fosse presente, sebbene invisibile, al fatto, e abbia “proiettata” sulla tilma la propria immagine, avente negli occhi il riflesso di ciò che stava vedendo.

Gli sforzi umani dei missionari, tuttavia, non ebbero inizialmente grande successo, e per anni la fede di Cristo rimase essenzialmente la “religione dei vincitori”, che ben poca attrazione esercitava sulle masse disperate dei figli degli sconfitti. Tutto questo fino all’anno 1531, quando ancora una volta la nostra storiasi sposa col mistero. Protagonista dell’evento che porterà all’entusiastica adesione degli sconfitti alla fede cristiana fu un uomo di origine indigena -uno dei pochi convertiti- di nome Cuauhatlatoa (Aquila Parlante), battezzato con il nome di Juan (Giovanni) Diego per analogia tra il suo nome azteco e il simbolo dell’evangelista Giovanni, che è appunto un’aquila.
Fu a quest’uomo che (un altro “segno”?[10]) aveva ricevuto in nome quello del Discepolo Prediletto –lo stesso a cui Gesù, dalla croce, aveva affidato la Madre– che fu donata la grazia straordinaria di essere strumento di un evento unico, di una vera e propria teofania che avrebbe cambiato per sempre la storia di un intero continente. Il giorno del solstizio d’inverno del 1531, infatti, toccò a Juan Diego passare per la collina di Tepeyac –vicino Città del Messico- ed assistere all’apparizione di una “Signora” dolcissima che si presenterà contemporaneamente come la Vergine Maria e la Inninantzin huelneli (Madre dell’Antico Dio) o anche, come riportano le tradizioni più antiche, “Madre misericordiosa tua e di tutti coloro che abitano questa terra”[11]. Per volere della divina Signora, Juan Diego comunicò al vescovo Juan de Zumàrraga l’avvenuta apparizione ma, al momento di aprire davanti all’ecclesiastico il suo rozzo mantello di fibra d’agave, apparve una figura di straordinaria bellezza rappresentante la Signora dell’apparizione.

Dopo la Sindone c’è lei: la Signora di Guadalupe

Questa figura, conosciuta come la Madonna di Guadalupe, è ancora oggi una delle reliquie più affascinanti ed inspiegabili della cristianità, seconda solo alla Sindone per importanza e per il numero di studi scientifici a cui è stata sottoposta.
Ed é particolarmente significativo, per altro, constatare come i primi “scettici” a mettere in dubbio l’origine sovrannaturale dell’immagine del Tepeyac fossero proprio i membri di quel clero ispanico giunto in Messico con lo scopo di “evangelizzare” gli indigeni. Già nel 1556, infatti, è il padre provinciale dei Francescani del Messico, Francisco Bustamante, a negare per primo l’origine miracolosa dell’immagine, affermando addirittura che il presunto “dipinto” sarebbe stato opera di un pittore indigeno di nome Marcos Cipac. E’ questo, se vogliamo, l’atto iniziale di un confronto che opporrà, in modo strisciante, da una parte l’entusiasmo popolare, convinto che l’immagine della Morenita[12] sia una prova concreta dell’avvenuta teofania; dall’altra, la cultura razionalista di origine europea, che vorrà –dal canto suo legittimamente- verificare con ogni mezzo possibile la presunta origine “prodigiosa” della sacra icona.
La prima “ricognizione” sulla Tilma la si ha nel 1666; stessa indagine verrà poi ripetuta nel 1752 e nel 1785, quando gruppi di studiosi e di pittori cercarono di riprodurre un’immagine quanto più possibile fedele all’originale, constatando l’assoluta impossibilità di eseguire, su un tessuto così grossolano come quello d’agave, i particolari raffinatissimi presenti nell’originale. La cosa che più colpirà questi primi studiosi, sarà però soprattutto il grado di conservazione della secolare Tilma, la quale già da allora sembrava ignorare inspiegabilmente gli effetti dell’inclemente clima caldo-umido del Tepeyac. Basti pensare che una copia dell’Immagine, realizzata dal pittore Rafael Gutiérrez nel 1782 sempre su tela d’agave, ed esposta nel santuario del Tepeyac, dovrà essere rimossa solo 11 anni dopo perché quasi del tutto rovinata dall’azione combinata dell’umidità e degli agenti biologici disgreganti. Quest’incredibile capacità di “rimanere illesa” a qualsiasi offesa –sia essa portata dalla natura o dall’uomo- rimarrà peraltro una costante di tutta la storia della Tilma, che dovrà sopportare, tra l’altro, anche un attentato dinamitardo[13] e un incidente causato da un’involontaria caduta di acido nitrico sul tessuto[14] ad opera di due disattenti operai.

 E la scienza deve inchinarsi

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Particolare degli occhi dell’immagine di Guadalupe che, secondo alcuni studi, conterrebbero alcune figure che sarebbero rimaste misteriosamente impresse nella pupilla.

E’ nel XX secolo, tuttavia, che l’indagine scientifica sulla Tilma sembra dare i risultati più sorprendenti. Il primo scienziato contemporaneo ad occuparsi dell’Immagine sarà, nel 1936, il Prof. Richard Kuhn –premio Nobel per la chimica nel 1938- che analizzando due fili colorati presi dalla Tilma –uno giallo e uno rosso- dovrà constatare l’assoluta assenza di pigmenti artificiali rilevabili. L’indagine più accurata sull’Immagine di Guadalupe, rimane tuttavia quella del fotografo e tecnico di pittura Philip Serna Callahan e del Masters of Art dell’Università di Miami, Prof. Jody Brant Smith, che nel 1979 scattarono decine di foto all’infrarosso dell’immagine del Tepeyac, nel tentativo di scoprire eventuali pigmenti d’origine artificiale. I risultati di questa ricerca saranno sorprendenti: perché, se si eccettuano alcune parti periferiche dell’Immagine (come le ali e i capelli dell’angelo che si trova ai piedi della Signora, i raggi dorati che ne circondano la testa, l’immagine della luna ai piedi e altri piccoli particolari, dovuti a discutibili interventi “estetici” motivati forse da eccessi di devozione), l’origine della figura sembrerebbe del tutto “inspiegabile” e non presenterebbe tracce di tinture conosciute all’epoca. Inoltre, nelle foto all’infrarosso, emergono sorprendentemente dei particolari delle pieghe dell’abito e della morbidezza del volto che difficilmente risultano visibili ad una ricognizione ad occhio nudo o su normali foto: ennesima rivelazione di quello che sembra essere un mistero inesauribile.

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Ecco la scena – qui dipinta in un quadro – che con molta probabilità è impressa negli occhi della Morenita.

La più straordinaria delle scoperte scientifiche legate all’indagine sull’Immagine guadalupana, tuttavia, sarebbe quella resa pubblica sempre nel 1979 dall’ingegnere elettronico di origine peruviana José Aste Tonsmann, dell’americana Cornell University, che utilizzando il metodo dell’elaborazione elettronica mediante computer, basato sulla scomposizione di una figura in “punti” luminosi e sulla “traduzione” della luminosità di ciascun punto nel “codice binario” del calcolatore –metodo utilizzato, fra l’altro, per la “decifrazione” delle immagini inviate sulla terra dalle sonde spaziali- è riuscito a ingrandire le iridi degli occhi della Vergine fino a 2500 volte le loro dimensioni originarie, mettendo in luce la straordinaria presenza di “figure umane” che comparirebbero all’interno della pupilla della Vergine, rispettando alla perfezione le leggi di Purkinje sulla rifrazione ottica delle immagini all’interno della cornea[15]. La scena scoperta dal Tonsmann, in realtà, sembrerebbe quasi presentarsi come “un’istantanea”, come una “foto” ante litteram riproducente, con ogni probabilità, il momento in cui Juàn Diego mostrò il mantello al Vescovo Juàn de Zumàrraga: apparirebbero, infatti, nell’ordine, la figura di un uomo con la barba e i lineamenti europei (il Vescovo?), un uomo dai lineamenti marcatamente indigeni (Juàn Diego?) e altre figure.

Il linguaggio misterioso del “Fiume Nascosto”

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Un dipinto sulla Morenita. Grandissima la devozione per la Vergine di Guadalupe.

Se grande è lo sbalordimento che il manto di Guadalupe sa ancor oggi trasmettere agli studiosi come ai semplici fedeli, ben più grande, tuttavia, fu la vera “rivoluzione” che questo miracoloso segno suscitò nell’animo morente del popolo indio. Altri messaggi, infatti, altri “segni” erano contenuti in quel povero tessuto d’agave: segni che nessun computer può aiutare a decifrare –e che anche gli Spagnoli dell’epoca ignorarono- ma che si impressero a fuoco nell’anima dei figli degli sconfitti, trasformando il loro destino. Sono segni, questi, che appartengono a l’altra storia, la storia nascosta e sotterranea che stiamo seguendo, ma che parlano un linguaggio fin troppo chiaro per chi, come gli Indios, era abituato a vivere in un universo di simboli.

Innanzitutto il luogo dell’evento. La collina del Tepeyac, infatti, era sacra da tempo immemorabile alla dea Coatlicue, la madre terra generosa ma terribile che per i popoli del Mesoamerica rappresentava il femminino sacro in tutte le sue forme; la stessa dea da cui era nato verginalmente il dio Quetzalcoatl. Lo stesso nome “Madonna di Guadalupe”, che indicava un’immagine molto venerata nella Spagna medievale, fu forse scelto proprio per la sua assonanza con il nome dell’antica Madre Divina azteca.
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Particolare del mantello

E’ sul mantello stesso, tuttavia, che il linguaggio simbolico assume un significato senza pari, precluso come abbiamo detto agli occupanti spagnoli, ma ben comprensibile da una civiltà geroglifica come quella degli Aztechi: un “linguaggio di segni” come quello che andiamo via via scoprendo dietro tutta questa vicenda. Sul manto della Signora, infatti, compare una complessa mappa di stelle che, secondo i più recenti studi, rappresenta proprio l’aspetto del cielo visibile dal Tepeyac durante il Solstizio d’inverno del 1531: ivi appare la costellazione della Vergine in primo piano proprio all’altezza delle mani della Vergine. Ma il concetto più alto e contemporaneamente più chiaro è espresso da un piccolo geroglifico, il Nahui Ollin, posto all’altezza del ventre: si tratta di un piccolo fiore a quattro petali, che nell’antica scrittura pittografica designava il Centro del Mondo o la Divinità più antica: il significato che un indio poteva dunque percepire era, inequivocabilmente, quello di una Madre che …sta per partorire la Divinità.
Il Mantello di Guadalupe è dunque un perfetto esempio di “incontro spirituale” fra due culture così distanti nell’unica maniera in cui tale incontro risulta possibile: il piano eterno dei simboli. Da questo punto di vista, l’evento di Guadalupe appare alla stregua della “foce” di un lungo percorso sotterraneo che, leggendo i simboli, sembrerebbe attraversare come un fiume carsico il cuore di una cultura pur così diversa dalla nostra. Un incontro non umano ma, se si crede all’evento del Tepeyac, direttamente divino, in un’epoca storica in cui era molto di là da venire certo “ecumenismo” contemporaneo e troppo lontane nel passato le riflessioni patristiche sui “Semi del Verbo”. Una storia nascosta eppure reale che forse, quale ultimo “segno”, anche il nome “Guadalupe” sembra voler suggellare: un nome di antica origine araba, come molti nella topografia della penisola iberica, ma dal significato molto evocativo …Fiume Nascosto.

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[1] E’ paradossale che questa “leggenda nera” sia nata proprio in quel mondo anglosassone che, contemporaneamente,  sterminava gli irlandesi e ripuliva con puritana determinazione il Nord America dalle popolazioni native “pagane”.
[2] Il sacrifico umano era giustificato presso tutti i popoli mesoamericani come una “riparazione” o “penitenza” (nextlahualli ), in ricordo del “Sacrificio Primordiale” attraverso il quale gli dei avevano dato vita all’universo. Presso gli Aztechi, tuttavia, questa pratica raggiunse dimensioni davvero senza precedenti: si è calcolato che dalle 5.000 alle 20.000 vittime umane venissero sacrificate ogni anno e ogni divinità richiedeva un differente supplizio (estirpazione del cuore, scuoiamento, affogamento, rogo, ecc.)

[3] Letteralmente il Serpente (coatl) Quetzal. Il Quetzal è un meraviglioso uccello della foresta le cui piume verdi veniva spesso utilizzate per confezionare splendidi abiti destinati prevalentemente ai Sovrani.
[4] La Dea Coatlicue, letteralmente Gonna di Serpenti (i serpenti simboleggiano qui le forze primordiali della natura), non mancava, come tutte le divinità azteche, di un aspetto terrificante: le immagini della dea la raffiguravano con una cintura di mani umane mozzate (qualcosa di analogo alla dea Kali degli indù).
[5] I Toltechi erano una popolazione che aveva preceduto gli Aztechi nella Valle del Messico: l’apogeo del loro regno dovrebbe cadere verso il X e XI sec. D.C.
[6] Questo particolare della “pelle chiara” attribuita al re Quetzalcoatl nelle leggende ha dato origine ad una ridda di interpretazioni –dalle più interessanti e plausibili, alle più fantastiche. C’è chi di volta in volta ha visto, in questo personaggio, un monaco irlandese giunto in Messico prima dell’anno 1000, un prete scandinavo, un cavaliere templare o persino, come immaginarono i primi missionari francescani, un apostolo di Gesù (in particolare San Tommaso). Il mistero rimane, anche perché la leggenda degli “dei bianchi venuti da lontano”  è presente anche in altre culture pre-colombiane, come i Maya, gli Incas, ecc.
[7] Secondo Bernal Diaz del Castìllo, soldato di Cortèz e autore della più completa cronaca della Conquista, era questo il nome che i Mexica (cioè gli Aztechi) attribuivano agli Spagnoli (evidente correzione del termine nahuatl teotl, che vuol dire divinità).
[8] Sulle cui rovine è sorta Città del Messico.
[9] “Molti Indios si impiccarono, altri si lasciarono morire di fame, altri si avvelenarono con erbe, alcune madri uccisero i loro bambini” (cit. in V. Elizondo, Guadalupe, madre della nuova creazione, Assisi 2000, p. 55).
[10] A titolo di curiosità, ricordiamo che le più antiche fonti raccontano che la città di provenienza di Juàn Diego era Cuauhtitlàn, nota nel mondo azteco come sede dei guerrieri dell’Ordine dell’Aquila (cfr. A.F.Castanares, Vida del Beato Juan Diego, in Historica, n° 2, Giugno 1991).
[11] Cit. in AA.VV., La Madonna di Guadalupe. Dono di Dio o dipinto d’uomo?, Cinisello Balsamo (Mi), 2000, p. 2
[12] E’ il nome affettuoso con cui l’immagine di Guadalupe è conosciuta nell’intera America Latina: il nomignolo è dovuto al colorito “meticcio” della Vergine, la quale si presenta con tratti razziali misti europei-indigeni.
[13] Nel 1921, durante la feroce persecuzione contro i Cattolici in Messico, l’immagine fu fatta oggetto di un attentato dinamitardo dalla quale rimase illesa perché un grosso crocefisso di metallo “assorbì” l’onda d’urto dell’esplosione.
[14] Nel 1836, durante una ripulitura della teca, alcuni operai versarono inavvertitamente acido nitrico sul tessuto: anche in questo caso, il secolare e fragilissimo mantello, invece di sfilacciarsi rimase illeso.

[15] Il testo più ricco di informazioni su questa straordinaria scoperta, tra quelli tradotti in italiano, è sicuramente: C. Perfetti, Guadalupe. La tilma della Morenita (Messico 1931), Cinisello Balsamo (Milano) 1988.

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2 commenti

  1. Pingback: Il mistero della Virgèn de Guadalupe: simbolismo, storia e prodigi della “Signora del Messico” | MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Transpersonal Tradicional (Pneumatología)

  2. sergio falcone on

    Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere scriveva che la cultura popolare è una concezione del mondo: “…non solo non elaborata e sistematica (…), ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati. Anche il pensiero e la scienza moderna danno continuamente elementi al “folclore moderno”, in quanto certe opinioni, avulse dal loro complesso e più o meno sfigurate, cadono continuamente nel dominio popolare e sono “inserite” nel mosaico della tradizione”. [V. Gerratana (a cura di), A. Gramsci, “Quaderni del Carcere”, …cit. Q27, §1, pp. 2312-2313]

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